Con la sentenza 3263/2019 la terza sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla posizione del singolo paziente in ordine all’organizzazione del c.d. risk management da parte della struttura sanitaria pubblica.
Secondo i giudici di Palazzo Spada il privato non ha una posizione di interesse legittimo tutelabile avanti al giudice amministrativo in ordine agli atti con i quali l’amministrazione sanitaria organizza e attua al proprio interno l’attività di prevenzione e gestione del rischio (c.d. risk management) per un più efficiente implementazione, sul piano generale, dei livelli essenziali di assistenza e una miglior tutela della salute dei pazienti che si rivolgono al Servizio sanitario nazionale.
“L’attività di risk management – spiegano gli stessi giudici – è, come noto, un concetto universale e trasversale, che ha trovato applicazione in ogni settore dell’economia moderna e, quindi, anche dell’attività pubblica, ed è definibile come quel processo attraverso il quale si identifica, si stima o misura un rischio e, successivamente, si sviluppano strategie mediante il coordinamento delle risorse per minimizzarlo e governarlo”.
È vero, come afferma solennemente l’art. 1, comma 1, l. n. 24 del 2017, che la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività, ma il successivo comma 2 si premura di ricordare che «la sicurezza delle cure su realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative».
La l. n. 24 del 2017 ha inteso abbandonare il culto della responsabilità personale per promuovere la cultura della sicurezza curativa, in un approccio sistemico al rischio clinico, che segna il passaggio da una responsabilità individuale, della singola struttura e del singolo operatore, ad una responsabilità di sistema, dell’intero Servizio sanitario nazionale, nella sua dimensione organizzativa, e dunque da una responsabilità retrospettiva, che guarda a chi ha commesso l’errore, ad una responsabilità prospettiva, che guarda al perché è accaduto l’errore e a come evitarlo.
Questo tipo di responsabilità individua un nuovo paradigma per gli eventi che accadono nei sistemi complessi, tale da orientare tutti coloro che agiscono nel sistema verso il miglioramento della sicurezza, specificando i doveri nel creare un ambiente più sicuro, in termini di azioni preventive, analisi degli errori, soluzioni correttive e obbligo di trasparenza.
Siffatta forma di responsabilità prospettica, che presiede al concetto stesso di risk management, si muove secondo una logica di tipo organizzativo e orientata verso il futuro e, in particolare, verso la prevenzione degli errori, anche quando non siano forieri di un effettivo danno per il singolo paziente.
La dimensione esclusivamente collettiva del diritto della salute, in tale declinazione preventiva, prospettica, che guarda al futuro, e non già riparatoria, retrospettiva, che guarda al passato, impedisce che il privato possa ritenersi portatore di un interesse legittimo al suo corretto esercizio che, in ultima analisi, non coincida con un interesse al ristoro del danno subito.
Ma, se così è, tale interesse al ristoro di un bene della vita effettivamente leso – il diritto alla salute del singolo paziente – non può trovare tutela che nella idonea sede civilistica (o anche penalistica) e non avanti al giudice amministrativo.
La segnalazione del c.d. evento sentinella, indice di eventuali errori e/o disorganizzazioni della struttura sanitaria, da parte degli organi interni dell’Azienda sanitaria locale deputati al relativo controllo, in questa prospettiva di prevenzione, costituisce infatti parte di una più complessa, articolata, attività di gestione del rischio sanitario, che mira ad identificare azioni correttive per il futuro, a tutela della salute pubblica e a garanzia del Servizio sanitario nazionale, ma non esplica alcun effetto sulla sfera giuridica del paziente e dei suoi parenti, i quali non possono vantare, rispetto agli altri cittadini pure interessati alla tutela della salute quale interesse della collettività (art. 32 Cost.), una posizione giuridica qualificata circa il bene tutelato dalle relative disposizioni.
Tali disposizioni, per quanto attiene a tale specifico aspetto (la gestione del rischio sanitario), tutelano infatti in parte qua un bene esclusivamente pubblico, al punto tale che l’art. 1, comma 539, lett. a), l. n. 208 del 2015 ora modificato dall’art. 16, comma 1, l. n. 24 del 2017, prevede che «i verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari».
Il privato dunque non può, nel richiedere l’accesso agli atti di tali attività, interloquire sul loro contenuto e sindacare se l’amministrazione sanitaria, nell’attività di risk management, abbia qualificato correttamente o meno l’evento come sentinella, quasi a voler ritenere che la sua azione annullatoria contro tale qualificazione costituisca un “monito” per il futuro.
Ciò comporterebbe il riconoscimento, in capo al privato, di una superlegittimazione di stampo popolare e di carattere inquisitorio sull’esercizio dell’attività di gestione del rischio sanitario, che è e resta di insindacabile apprezzamento della sola autorità sanitaria preposta alla gestione del rischio sanitario per approntare strumenti efficaci per il futuro, “imparando dall’errore”, per quanto questo errore abbia potuto, in ipotesi, danneggiare il singolo.
Il tempo della comunicazione tra medico e paziente e suoi familiari, tempo che – ai sensi dell’art. 1, comma 8, della l. n. 219 del 2017, previsione cardine dell’intera disciplina – costituisce «tempo di cura», è un momento essenziale, immancabile, della dinamica relazionale e del rapporto di fiducia che tra essi si instaura e non dipende, del resto, dalla qualificazione dell’evento come sentinella o avverso, perché anzi, proprio a fronte dell’exitus che ha colpito il paziente dopo la terapia, il medico ha il dovere, nella connotazione esistenziale di tale rapporto (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460), di informare i parenti dell’evento, con chiarezza, veridicità e semplicità, ma anche con una sensibilità comunicativa che tenga conto del loro dolore di fronte alla morte del loro congiunto.