Il reddito di cittadinanza non è una semplice misura di contrasto alla povertà ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. Poiché il suo orizzonte temporale non è di breve periodo, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non è un requisito privo di collegamento con la ragion d’essere del beneficio previsto. È, questo, un passaggio della sentenza n. 19 depositata oggi (redattrice Daria de Pretis), con cui la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate da Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, sulla disciplina del reddito di cittadinanza, che, fra i diversi requisiti necessari per ottenere questa provvidenza, richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo» (articolo 2, primo comma, lettera a, n. 1 del decretolegge 4/2019).
Il giudice di Bergamo contestava la norma in quanto esclude dal reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico di lavoro previsto dall’articolo 5, comma 8.1, del Dlgs 286/1998, o di permesso di soggiorno di almeno un anno previsto dall’articolo 41 del Dlgs 286/1998, per violazione degli articoli 2, 3, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo il Tribunale, infatti, l’asserita natura di prestazione essenziale del reddito di cittadinanza – diretto a soddisfare bisogni primari della persona umana – comporterebbe l’incostituzionalità di qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti. Il Tribunale lamentava inoltre l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di lungo periodo e le situazioni di bisogno per le quali la prestazione è prevista.
La Corte ha dichiarato infondate entrambe le censure. Il reddito di cittadinanza non si risolve in una mera provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma presenta un contenuto più complesso di misura di politica attiva del lavoro, che comprende un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. A questa sua prevalente connotazione si collegano la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che si accompagni a precisi impegni dei destinatari. In questo contesto la Corte ha ricordato che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali stabiliti negli articoli 2, 3 e 38, primo comma, della Costituzione, garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla sopravvivenza dignitosa e al minimo vitale, ma che tuttavia nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito legittima la Corte stessa a “convertire” verso questo obiettivo una misura cui il legislatore assegna finalità diverse. La Corte ha pertanto ritenuto che, considerati la durata del beneficio (18 mesi, con possibilità di rinnovo) e il risultato perseguito (l’inclusione sociale e lavorativa), non irragionevolmente il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia destinato la misura agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato.
Fonte: Corte Costituzionale