Il nucleo essenziale della controversia è costituito dalla riconducibilità o meno delle disposizioni relative all’individuazione e disciplina degli impianti minimi all’esercizio del potere regolatorio, per come attribuito all’Autorità dalla legislazione vigente, nonché, da altra angolazione, il loro ipotetico sovrapporsi ai contenuti di un atto programmatorio, la cui adozione spetta per legge alle regioni e, in un ambito sopraelevato, allo Stato. Secondo le argomentazioni di parte pubblica, infatti, l’introduzione del concetto di “impianti minimi” non avrebbe alcuna portata autonoma, o innovativa ( e quindi normativa), ma rivestirebbe una funzione esclusivamente strumentale alla successiva declinazione delle metodiche tariffarie, in un’ottica di valorizzazione della portata propulsiva delle stesse in vista dell’efficientamento e miglioramento del servizio, così da arginare gli effetti distorsivi sui costi delle riscontrate posizioni di monopolio. D’altro canto, la competenza programmatoria regionale risulterebbe pienamente rispettata giusta il rinvio, per l’individuazione in concreto degli impianti “minimi”, ai relativi atti di siffatta natura. Esso costituirebbe semplicemente la conferma della ribadita necessità, con una norma peraltro sopravvenuta all’avvenuta attribuzione ad ARERA di poteri in materia di rifiuti, di un coordinamento statale nella individuazione delle scelte necessarie a chiudere in maniera efficiente il relativo ciclo.
Invece, nell’uno (regolamento a carattere normativo), come nell’altro caso (programma nazionale) è lo Stato a dover indicare le regole, cui le Regioni daranno attuazione, in primo luogo attraverso il proprio strumento principe costituito dal PRGR. Alla indicazione di “principi”, si aggiunge (non si sostituisce) un vero e proprio “Programma” – dizione più ampia e per questo più ambiziosa di quella di “Piano” in quanto implica una direttrice di sviluppo delle politiche ambientali in materia di rifiuti – che tiene conto delle problematiche
per l’ambiente, localizzando le maggiori e individuando i siti più idonei per impiantistica di interesse sovraregionale, ma nel contempo mettendo a regime le potenzialità economiche della intrinseca natura di risorsa di un rifiuto recuperato a diverso utilizzo.
Dunque, il necessario bilanciamento tra contrapposti interessi egualmente tutelati dalla Costituzione (la tutela dell’ambiente, da un lato, in tutte le sue implicazioni, e le ragioni dell’imprenditoria privata, dall’altro) non può essere rimesso alla singola Regione in assenza di scelte dello Stato, che, ove richiedono elaborazioni concettuali, dovranno assumere veste necessariamente normativa.
L’ARERA, pertanto, nel fornire i criteri per individuare gli impianti “minimi” quale fattore essenziale per la chiusura del ciclo integrato dei rifiuti, non solo ha indirizzato il potere programmatorio delle Regioni, avocandosi un potere di direttiva attribuito allo Stato, ma ha di fatto arricchito di contenuti a esso estranei il potere pianificatorio delle Regioni, individuando la soluzione “normativa” alle criticità impiantistiche nella sostanziale acquisizione al sistema pubblicistico di impianti operanti in regime di libera concorrenza.
La carenza di potere e il vizio di incompetenza che affligge la delibera di ARERA si riverbera inevitabilmente sulle deliberazioni e sugli atti regionali adottati in esecuzione della stessa (quanto al Piano regionale dei rifiuti, limitatamente alla parte di interesse).
Fonte: www.giustizia-amministrativa.it