Allorchè si ricolleghino all’accertamento dei fatti in sede penale effetti sul piano della insussistenza dei requisiti per l’accesso a settori di attività soggetti a regime amministrativo, non si versa per ciò solo in campo di sanzioni.
Sul piano concettuale questa opportuna distinzione è stata messa in evidenza dalle numerose pronunce della Corte costituzionale relative alle ipotesi di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive previste dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (sentenze nn. 236/2015, 276/2016, 35/2021, 230/2021, 214/2017, 36/2019, 230/2021; ordinanza n 46/2020).
Nella sentenza n. 236/2015, in particolare, la Corte costituzionale ha chiarito che “tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”.
Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 17 giugno 2021, Miniscalco contro Italia; e con la decisione 18 maggio 2021, Galan contro Italia.
Un secondo, ancor più dirimente, motivo che impedisce di applicare alla fattispecie dedotta lo schema concettuale che è alla base dell’invocato divieto del ne bis in idem, è il rilievo che l’odierno appellante nei due procedimenti penali in questione non ha visto irrogata alcuna sanzione, essendo stati dichiarati prescritti i reati a lui ascritti.
Quand’anche il provvedimento amministrativo impugnato con il ricorso di primo grado avesse – in via di mera ipotesi – natura sanzionatoria (il che si è escluso al punto precedente), esso non si cumulerebbe con altra sanzione.
Come chiarito molto efficacemente dalla sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale, “Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la grande camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. (….) la Corte EDU ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. (….) neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata”.
Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza da ultimo richiamata, la sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016 ha spostato il baricentro della fattispecie considerata, superando sia la rigida inderogabilità del divieto di ne bis in idem, sia la sua natura esclusivamente processuale.
In conseguenza, come osserva la Corte costituzionale nella sentenza n. 43/2018, l’attuale fisionomia dell’istituto implica un “controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata”: e poiché – come ricorda la stessa sentenza – “Le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata (sentenza n. 49 del 2015)”, ne consegue che rispetto all’attuale configurazione dell’istituto, come ridefinito dalla sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016, rimane del tutto estranea la fattispecie dedotta nel presente giudizio, connotata dall’assenza dell’irrogazione di una sanzione penale.
Fonte: www.giustizia-amministrativa.it