Non è motivo di esclusione dalla gara la mancata dichiarazione di un debito con il fisco ancora non oggetto di (o contenuto in) un atto dell’amministrazione finanziaria in pendenza del termine per presentare la domanda di partecipazione alla procedura, che nel suo complesso il contribuente ha poi chiesto di rateizzare e la cui istanza è stata accolta.
Nella sentenza 758/2019 il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha chiarito che la disciplina nazionale in tema di esclusione dalla gare per irregolarità fiscale, anche in ragione del recepimento incompleto della direttiva è molto garantista nei confronti del privato e non del tutto coordinata con il diritto tributario. Rilevano, infatti, in senso escludente, solamente i debiti fiscali definitivamente accertati, per tali intendendosi quelli non contestati in giudizio nei termini di legge ovvero se contestati confermati dal giudice tributario sulla base di una sentenza non più soggetta ad impugnazione; la proposizione, perciò, di un ricorso dinanzi alla competente commissione tributaria (o di un appello o di un ricorso per cassazione), quand’anche manifestamente infondato, è comunque sufficiente a determinare (a perpetuare) la non definitività del debito e, in ultima analisi, a permettere nelle more la partecipazione alle gare, oltre tutto, a scapito degli altri concorrenti che siano invece (del tutto) in regola con il fisco (e magari, proprio per tale ragione, impossibilitati ad offrire ribassi oltre una certa misura).
Secondo la legislazione in materia di contratti pubblici, quindi, qualunque debito, per quanto rilevante in termini economici, purché (e finché) ancora oggetto di un giudizio tributario (proponibile o) pendente, non potrà essere motivo di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 4, del codice dei contratti del 2016.
Gli stessi giudici hanno aggiunto che la previsione della direttiva 24/2014, che permette alle stazioni appaltanti di valutare anche l’esistenza di debiti non ancora definitivi, sulla base di un prudente apprezzamento e attraverso una causa di esclusione di tipo facoltativo, non è stata recepita nel nostro sistema, neppure in occasione dell’ultimo intervento dedicato alla modifica di talune parti del codice dei contratti del 2016 (con il d.l. n. 32 del 2019 e la legge di conversione n. 55 del 2019).
La Sezione ha quindi stabilito che l’art. 80, comma 4, del Codice dei contratti pubblici non si coordina alla perfezione con la disciplina fiscale propriamente intesa.
L’art. 80, nel fare riferimento a “sentenze e atti non più soggetti ad impugnazione” sembra scritto, infatti, pensando essenzialmente alle pretese fiscali (che sono) oggetto di avvisi di accertamento, la cui inoppugnabilità o la cui conferma in giudizio rende “definitivamente accertate” le violazioni (ossia gli omessi pagamenti, nella soglia minima ritenuta rilevante) del contribuente. Molto meno chiaro è invece se, a fronte di un avviso di accertamento divenuto già definitivo ovvero inoppugnabile, possa bastare l’impugnazione della cartella di pagamento, quale atto di riscossione esecutivo di detto avviso, per permettere al contribuente di invocare – magari a distanza di anni dal verificarsi del presupposto – la non definitività della sua irregolarità.