Il presidente, Donald Trump, suscita polemiche e divisioni all’esterno e all’interno degli stessi Stati Uniti. Marce di proteste e scontri di piazza stanno segnando i suoi primi giorni di mandato, eppure il neoinquilino della Casa Bianca tira dritto, non demorde, e ha iniziato ad attuare il suo programma di governo attraverso specifici ordini esecutivi, dall’edificazione del muro ai confini con il Messico alla decisione di imporre dazi alle multinazionali Usa che delocalizzano le fabbriche fuori dai confini per risparmiare sui costi e poi reimportare i beni prodotti immettendoli sul mercato domestico. Si preannuncia, dunque, una presidenza travagliata su più fronti che, nel bene e nel male, lascerà il segno. Fra le tante controversie del momento ve n’è una, forse poco nota al grande pubblico di casa nostra, che merita particolare attenzione per le ricadute che potrebbe sortire anche nel Vecchio Continente: la questione del finanziamento delle così dette “città santuario”.
“Proteggeremo la nostra comunità e le nostre famiglie affinché possano vivere in pace e sicurezza”. Con queste parole il Sindaco di Providence (Rhode Island) Jorge Elorza, figlio di guatemaltechi venuti in America illegalmente, ma divenuti poi cittadini americani, ha cercato di placare le ansie degli immigranti determinatesi a seguito delle bellicose dichiarazioni di Trump. Elorza non è l’unico Sindaco di una città statunitense a manifestare la propria opposizione alla retorica anti immigrazione. I suoi colleghi delle più grandi metropoli americane come New York, Los Angeles, Chicago, San Francisco, Denver, Boston, Philadelphia hanno già espresso sentimenti analoghi. Alcuni di questi Sindaci guidano “città santuario”, ossia centri urbani che hanno promesso di non cooperare con il governo federale per la deportazione di immigrati eccetto nei casi di seri crimini accertati. Negli States, oltre 500 città si sono dichiarate “santuario”, anche se non è formalizzata una definizione legale del termine. E’ la prassi a definirle. Sono caratterizzate, in linea di massima, dall’adozione di provvedimenti che pongono limiti alla cooperazione fra polizia locale e federale in questioni d’immigrazione. Ora, Trump ha minacciato di tagliare i fondi federali alle città santuario, spesso collocate in Stati che non gli hanno dato la maggioranza nelle elezioni presidenziali, provocando conseguenze negative sui bilanci di queste metropoli. L’approccio scelto dal presidente non appare, tuttavia, di facile implementazione, dato che l’erogazione dei fondi è sancita dalla legislazione vigente. Preoccupano soprattutto quelle situazioni nelle quali la discrezionalità del presidente è più ampia. Si pensi, ad esempio, ai cosiddetti “dreamers”, giovani giunti in America da bambini e cresciuti in questo Paese ai quali Obama ha dato benefici di residenza temporanea mediante l’ordine esecutivo Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals). Trump potrebbe abrogarlo mettendo nei guai questi giovani e le loro famiglie. Deportare i dreamers nei Paesi di origine (di fatto a loro realmente sconosciuti) sarebbe una tragedia perché si tratta di americani a tutti gli effetti, eccetto che per la mancanza di documenti. Che lezione trarne da tale diatriba? In un sistema federale, ancorchè efficiente e collaudato come quello Usa, possono ingenerarsi forti contraddizioni e conflitti istituzionali quando partiti politici di opposto orientamento controllano rispettivamente il governo centrale e le amministrazioni locali.