Ai fini della tutela dell’articolo 18, nel testo modificato dalla riforma Fornero, il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia “manifesta” (settimo comma, secondo periodo). Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 125 depositata oggi (redattrice la vice Presidente Silvana Sciarra), intervenendo su un altro tassello della legge Fornero (n. 92 del 2012), in materia di disciplina dei licenziamenti. L’incostituzionalità ha colpito la sola parola “manifesta”, che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative. Al fatto – spiega la sentenza – si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità” (sentenza n. 59 del 2021). La Corte ha affermato che il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento. Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché evoca “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
Il criterio della manifesta insussistenza – ha precisato inoltre la Corte – “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”. Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto – che è già di per sé un’operazione complessa – le parti, e con esse il giudice, si devono impegnare “nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza”. Vi è dunque un “aggravio irragionevole e sproporzionato” sull’andamento del processo: all’indeterminatezza del requisito si affianca una irragionevole complicazione sul fronte processuale. La Corte ha dunque individuato uno squilibrio tra i fini che il legislatore si era prefisso – consistenti in una più equa distribuzione delle tutele, attraverso decisioni più rapide e più facilmente prevedibili – e i mezzi adottati per raggiungerli.
Fonte: Corte costituzionale