Recentemente su “La Repubblica” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Sanità digitale, un paradosso da 1,27 miliardi di euro”. L’analisi fatta in relazione ai dati contenuti dallo studio sulla sanità digitale dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, vista dal punto di vista giornalistico e del cittadino, non fa una piega anzi punta il dito su quanto ancora non è stato fatto in particolare per contrastare le difficoltà di un Paese che, inesorabilmente, va verso un invecchiamento progressivo della popolazione. Tuttavia è necessario puntualizzare alcuni aspetti evidenziati solo parzialmente.
In primo luogo la Consip, d’accordo con le Istituzioni che rappresenta, ha bandito una gara per una Convenzione nazionale nel settore della Sanità (Sistemi gestionali integrati) tesa ad uniformare i comportamenti e, magari, standardizzare i flussi informativi nazionali di un valore estremamente importante. A mio modestissimo parere è proprio questo il punto: non serve spendere molto in strumenti poco standardizzati poiché, come ben descritto anche dal Politecnico di Milano, questo non produce comportamenti generalizzati da parte del cittadino e, quindi, gli strumenti scelti risultano essere poco efficaci.
Altro aspetto riguarda la razionalizzazione della spesa e la sua conseguente riduzione che sono una scelta strategica del Paese che, però, si può realizzare solamente attraverso misurazioni puntuali e non attraverso tagli lineari; ed in sanità sappiamo che le attività di prevenzione e quelle territoriali hanno livelli di misurazione piuttosto ridotti.
È vero che negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una maggiore attenzione sulla privacy dei dati clinici in seguito alla crescente diffusione delle cartelle cliniche elettroniche e alla consapevolezza sull’importanza della tutela alla riservatezza. Questo è certamente un fenomeno positivo se consideriamo la particolare sensibilità di talune informazioni, tuttavia è altrettanto vero che i dati clinici dei cittadini vengono scarsamente utilizzati dalle Istituzioni poiché sono fortemente frammentati tra diversi attori del sistema che non li condividono con l’intero SSN.
Questa situazione di frammentazione delle informazioni e dei dati sulla salute pubblica rende difficile misurare e valutare alcune patologie croniche e, talvolta, impossibile realizzare una gestione integrata tra medici di medicina generale e specialisti ospedalieri, qualora il soggetto privato non fornisca l’accesso ai dati che gestisce nel pieno rispetto delle linee guida dettate dal Garante della Privacy.
Aggiungo inoltre che la parte sociale – e sappiamo bene quanto la condizione sociale incida sui determinanti di salute – ad oggi non può essere comparata con quella sanitaria, sempre per problematiche legate alla privacy. Questo non consente studi approfonditi per una programmazione sociale e sanitaria che possa essere efficace per affrontare e contrastare l’invecchiamento della popolazione.
La domanda che pongo è: un simile potere di “interdizione” è compatibile con le finalità e i compiti della sanità pubblica? Va inoltre considerato il fatto che la norma attuale non obbliga il privato, anche se accreditato e convenzionato, a trasmettere i dati di diagnosi ai FSE. Questa situazione non consente al SSN di programmare in maniera efficace.