Martedì 24 novembre è stato presentato il Rapporto SVIMEZ 2020, L’economia e la società del Mezzogiorno. La presentazione del Rapporto è stata fatta a cura di Luca BIANCHI, Direttore SVIMEZ, è poi seguita una tavola rotonda, con Adriano GIANNOLA, Presidente SVIMEZ, Giuseppe PROVENZANO, Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Lucrezia REICHLIN, Professore di economia alla London business school. Ha concluso Giuseppe CONTE, Presidente del Consiglio. Il confronto è stato moderato da Giorgio ZANCHINI, Giornalista RAI.
Ecco alcuni dati del rapporto: la prima ondata della pandemia ha avuto per epicentro il Nord. La crisi economica si è però presto estesa al Mezzogiorno dove si è tradotta in emergenza sociale incrociando un tessuto produttivo più debole, un mondo del lavoro più frammentario e una società più fragile. La seconda ondata, a differenza della prima, ha interessato direttamente anche il Mezzogiorno. All’emergenza economica e sociale già sperimentata nella prima ondata si è perciò sommata, nell’ultimo mese, l’emergenza sanitaria generata dalla pressione sulle strutture ospedaliere e in più generale su tutto il sistema di cura. L’ECONOMIA MERIDIONALE MINACCIATA Nel 2020 il Pil italiano, secondo SVIMEZ, si contrarrà del 9,6%. L’arretramento più marcato nel Centro-Nord, con un calo del 9,8%, nelle regioni meridionali sarà del 9%. Nelle regioni meridionali il secondo lockdown ha accresciuto le difficoltà di attività e pezzi di occupazione in posizione marginale (sommerso, nero, irregolari). Di qui la caduta del reddito disponibile delle famiglie del -6,3% che si trasmette ai consumi privati, con una contrazione al Sud pari al -9,9% superiore a quella del CentroNord (-9%). Mentre la base produttiva meridionale non ha ancora recuperato i livelli antecedenti la “lunga crisi”, specie nel comparto industriale. La SVIMEZ prevede che il Pil cresca nel 2021 al Sud dell’1,2% e nel 2022 dell’1,4% e al Centro-Nord del 4,5% nel 2021 e del 5,3%l’anno successivo. La conseguenza è che la ripresa sarebbe segnata dal riaprirsi di un forte differenziale tra le due macro aree.
Secondo SVIMEZ, il Paese è «unito» da una recessione senza precedenti. Gli effetti economici, così come avvenuto per la pandemia, si diffondono progressivamente a tutte le regioni italiane. Il primato negativo del crollo del PIL nell’anno del Covid-19 spetta ad una regione del Mezzogiorno e ad una del Nord: la Basilicata (–12,9%) e il Veneto (–12,4%). La Lombardia, epicentro della crisi sanitaria, perde 9,4 punti di Pil nel 2020. Perdite superiori al 10% si registrano nel 2020 al Nord: Emilia Romagna (– 11,4%), Piemonte (–11,3%) e Friuli V.G. (–10,5); al Centro: Umbria (–11,6%) e Marche (–10,8%); e nel Mezzogiorno: Puglia (–10,8%) e Molise (–11,7%). La Campania perde circa il 9%. Elevate le perdite anche in Calabria (–8,9%). A seguire Sardegna (–7,2%) e Sicilia (–6,9%), economie regionali meno coinvolte negli interscambi commerciali interni ed esteri e perciò più al riparo dalle ricadute economiche della pandemia.
Gli effetti della Legge di Bilancio 2021 si vedranno soprattutto nel 2022, in entrambe le macroaree. Sarà il Sud a trarne i maggiori benefici. Già dal prossimo anno, in quanto il Pil aumenterebbe del +2,5%, circa un punto più di quanto previsto senza tenere conto della Legge di Bilancio. Ciò perché vi sarà un aumento della spesa in conto capitale che si somma agli effetti già presenti nel 2021 della riduzione contributiva per i lavoratori del Sud. Previsioni per il PIL delle due macro-aree e l’Italia, 2021-2022 2021 (senza LB) 2021 (con LB) 2022 (senza LB) 2022 (con LB) Mezzogiorno 1,2 1,6 1,4 2,5 Centro-Nord 4,5 4,7 5,3 5,6 Italia 3,8 4,0 4,4 4,9 Fonte: Modello NMODS. La ripartenza del 2021 è più differenziata su base regionale rispetto all’impatto del Covid-19 nel 2020. Sia pure recuperando solo circa metà delle perdite subite nel 2020, le tre regioni settentrionali del triangolo della pandemia sono le più reattive: +5,8% in Emilia Romagna, +5,3% in Lombardia, +5,0% in Veneto. Segno, questo, che le strutture produttive regionali più mature e integrate nei contesti internazionali riescono a ripartire con meno difficoltà, anche se a ritmi largamente insufficienti a recuperare le perdite del 2020. Piemonte e Liguria, invece, mostrano maggiori difficoltà a ripartire a ritmi paragonabili alle altre regioni del Nord. Tra le regioni meridionali, le più reattive nel 2021 sono, nell’ordine, Basilicata (+2,4%), Abruzzo e Puglia (+1,7%), seguite dalla Campania (+1,6%), confermando la presenza di un sistema produttivo più strutturato e integrato con i mercati esterni. A fronte del Sud che riparte, sia pure con una velocità che compensa solo in parte le perdite del 2020, nel 2021 ci sarà anche un Sud dalla ripartenza frenata: Sicilia (+0,7%), Calabria (+0,6%), Sardegna (+0,5%), Molise (+0,3%). Si tratta di segnali preoccupanti di isolamento dalle dinamiche di ripresa esterne ai contesti locali, conseguenza della prevalente dipendenza dalla domanda interna e dai flussi di spesa pubblica. CALA INESORABILMENTE LA POPOLAZIONE Nel 2019, tutte le regioni italiane hanno registrato un saldo naturale negativo e in netto peggioramento rispetto all’anno precedente. Nel 2018 si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 138mila residenti, di cui 20 mila hanno scelto un paese estero come residenza, una quota decisamente più elevata che in passato, come più elevata risulta la quota dei laureati, un terzo del totale. Quasi i due terzi dei cittadini italiani che nel 2018 ha lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, aveva almeno un titolo di studio di secondo livello: diploma superiore il 38% e laurea il 30%. Nel Mezzogiorno il pendolarismo fuori regione è decisamente più intenso che nel resto del Paese, nel 2019 è praticato da circa 240mila persone, il 10,3% del complesso dei pendolari dell’area a fronte del 6,3% nel Centro-Nord. Un quinto dei pendolari meridionali (57 mila unità) si muove verso le altre regioni del Sud; i restanti quattro quinti (185 mila pari al 3% degli occupati residenti) si dirigono verso le regioni del Centro-Nord o i paesi esteri.
Nei primi tre trimestri del 2020 il lockdown ha incrociato un mercato del lavoro sostanzialmente stagnante da più di un anno. La SVIMEZ stima una riduzione dell’occupazione del -4,5% nei primi tre trimestri del 2020, il triplo rispetto al CentroNord. E si attende una perdita di circa 280mila posti di lavoro al Sud. La crescita congiunturale dell’occupazione era già modesta, la ricerca di lavoro in diminuzione e l’inattività in aumento. Il Covid non è stato una “livella”, non ha reso tutti un po’ più poveri ma più uguali. Gli andamenti sul mercato del lavoro mostrano l’esatto contrario: la crisi seguita alla pandemia è stata un acceleratore di quei processi di ingiustizia sociale in atto ormai da molti anni che ampliano le distanze tra cittadini e territori. La crisi si è scaricata quasi interamente sulle fasce più fragili dei lavoratori. Cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, nonostante l’ampliamento a settori ed imprese non coperte, hanno costituito un argine allo tsunami della crisi per i lavoratori tutelati, ma hanno inevitabilmente incanalato l’onda nociva dei licenziamenti, dei mancati rinnovi dei contratti a termine, e delle mancate assunzioni verso le componenti più precarie e verso i territori più deboli dove tali tipologie sono più diffuse. I posti di lavoro persi sono composti per due terzi da contratti a termine (non rinnovati al momento della scadenza e/o non attivati) e per la restante parte da lavoratori autonomi.
Già prima della pandemia la situazione di svantaggio dell’occupazione femminile nel nostro Paese era in larga parte prevalente al Sud. Contrariamente alla precedente crisi gli effetti occupazionali del lockdown si sono scaricati di più sulle donne, in particolare su quante erano occupate nei servizi con contratti precari. Peculiare al riguardo la situazione del tasso di attività ma ancor di più del tasso di occupazione femminile: le regioni meridionali sono le ultime tra quelle dell’ Unione Europea per entrambe gli indicatori ma il divario diventa particolarmente elevato per il tasso di occupazione ad evidenziare una persistente carenza di domanda di lavoro nelle regioni meridionali, anche in presenza di un’offerta di lavoro femminile crescente in particolare per le donne con più elevati livelli di istruzione.
Su questa situazione già critica si è abbattuta nella prima parte dell’anno l’emergenza sanitaria che ha cancellato in un trimestre quasi l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 ed il 2019 riportando il tasso d’occupazione delle donne a poco più di un punto sopra i livelli del 2008. La scarsa partecipazione femminile è connessa in buona parte all’incapacità delle politiche italiane di welfare e del lavoro di conciliare la vita lavorativa a quella familiare: il basso tasso di occupazione femminile è in buona parte ascrivibile allo scarso sviluppo dei servizi sociali. I GIOVANI L’occupazione giovanile si è ridotta nei primi due trimestri del 2020 dell’8%, più del doppio del calo totale dell’occupazione. A livello territoriale l’impatto sui giovani è stato ancora più pesante nelle regioni meridionali, già caratterizzate da bassissimi livelli di partecipazione al mercato del lavoro: 12%. E questo per effetto di una doppia penalizzazione. Da un lato ha pesato il mancato rinnovo dei contratti nel periodo del lockdown, dall’altro si sono chiuse le porte per coloro che nel 2020 sarebbero dovuti entrare nel mercato del lavoro.
Se consideriamo i due strumenti Reddito di Cittadinanza e Reddito di Emergenza insieme, l’area dell’assistenza ha raggiunto in questi mesi di crisi una dimensione molto ampia: oltre 3 milioni di persone, di cui due terzi al Sud hanno percepito il RDC tra aprile 2019 e settembre 2020, cui si aggiungono altre 550 mila persone (350 mila al Sud e 200 mila al Centro-Nord) che hanno percepito il REM. Nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie è scesa dal 10,0 del 2018 all’8,6% mentre le persone che vivono in famiglie in povertà assoluta passano dall’11,4 al 10,1%. In valori assoluti si tratta di circa 116 mila nuclei familiari e 281 mila individui in meno. La parziale coincidenza tra beneficiari e nuclei in condizioni di povertà sembra trovare un’ulteriore conferma il fatto che nel Mezzogiorno i nuclei che ricevono il RdC/PdC sono ormai superiori a quelli in povertà assoluta (circa 800 mila contro 706 mila) mentre i nuclei in povertà assoluta si sono ridotti nel 2019 soltanto di 116mila unità. Scarso se non nullo risulta, in sintesi, l’impatto del Reddito di cittadinanza sul mercato del lavoro. Con l’entrata in vigore dell’RdC ci si aspettava un aumento del tasso di partecipazione e del tasso di disoccupazione mentre nei quattordici mesi è successo il contrario. Emergono i limiti di un’interpretazione concentrata solo sul sussidio economico in aree (le periferie urbane, le aree interne del Sud come del Nord) in cui le strutture pubbliche che offrono servizi al cittadino sono molto deboli. La tenuta sociale soprattutto nei grandi centri urbani è stata delegata allo straordinario lavoro fatto dalle organizzazioni del terzo settore e del volontariato che nella fase critica della pandemia hanno supplito i buchi di assistenza degli strumenti contro la povertà e la debolezza delle strutture pubbliche locali di contrasto all’emarginazione sociale.
Diciamo la verità, ribadisce la SVIMEZ, la sanità meridionale era una “zona rossa” già prima dell’arrivo della pandemia, come dimostrano i punteggi LEA e la spesa sanitaria pro capite. Il divario nei servizi è dovuto soprattutto a una minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali e riguarda diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di sicurezza, adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura. In prima fila il divario sanitario. Guardiamo i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza): nel 2018, ultimo anno per il quale sono disponibili i risultati ed è anche il primo in cui tutte le regioni monitorate risultano adempienti, raggiungendo il punteggio minimo di 160. La distanza tra le regioni del Sud e del Centro- Nord è marcata, oscillando tra valori massimi di 222 punti del Veneto e 221 dell’Emilia -Romagna e i minimi di 170 di Campania e Sicilia e di appena 161 della Calabria. Per comprendere meglio cosa si nasconda dietro queste differenze nei punteggi LEA in termini di impatto concreto sulle opportunità di cura dei cittadini, è utile guardare ad alcuni indicatori sull’accesso a particolari servizi sanitari. Drammatico è, ad esempio, lo squilibrio tra regioni italiane nelle attività di prevenzione. L’indicatore sintetico che misura la partecipazione della popolazione target ai programmi regionali di: screening mammografico per il tumore al seno; di screening per il tumore della cervice uterina; per il cancro del colon retto. Evidenzia uno score pari a 2, per la Calabria, mentre Liguria, Veneto, Provincia Autonoma di Trento e Valle d’Aosta sono le regioni con il punteggio più alto, pari a 15. A ruota il divario scolastico e formativo, già evidente nei servizi per l’infanzia. I posti autorizzati per asili nido rispetto alla popolazione sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del paese. La spesa pro capite dei Comuni per i servizi socioeducativi per bambini da 0 a 2 anni è pari a 1.468 euro nelle regioni del Centro, a 1. 255 euro nel Nord-Est per poi crollare ad appena 277 euro nel Sud. Nel Centro-Nord, nell’anno scolastico 2017-18, è stato garantito il tempo pieno al 46,1% dei bambini, con valori che raggiungono il 50,6% in Piemonte e Lombardia. Nel Mezzogiorno in media solo al 16%, in Sicilia la percentuale scende ad appena il 7,4%. Infine il Sud presenta tassi di abbandono assai più elevati: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers meridionali erano il 18,2% a fronte del 10,6% delle regioni del Centro-Nord. In cifra fissa si tratta di 290mila giovani. Valori più elevati si registrano nel Mezzogiorno sia per i maschi (21% a fronte del 13,7% del Centro-Nord) sia per le femmine (16,5% a fronte del 9,6% del Centro-Nord). La pandemia potrebbe esacerbare le iniquità formative esistenti nei sistemi scolastici. . L’aspetto critico è che la carenza di strumenti e la presenza di un background familiare svantaggiato spesso coesistono, con gravi ripercussioni sull’eguaglianza delle opportunità che l’istruzione dovrebbe offrire. Ne è chiara testimonianza il dato relativo alla quota di ragazzi tra i 6 i 17 anni che vivono in famiglie in cui non sono disponibili dispositivi informatici. Il divario territoriale anche in questo caso è rilevante, 7,5% al Nord contro 19% nel Mezzogiorno, e assume dimensioni crescenti in base alle caratteristiche delle famiglie di appartenenza. Nel caso di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo, la percentuale di ragazzi che non ha disponibilità di un sussidio informatico nel Sud raggiunge il 34%. Il rischio è che un terzo dei ragazzi di queste famiglie, senza adeguati e tempestivi interventi da parte delle istituzioni, che pure sono intervenute in questo ambito, vengano esclusi dal percorso formativo a distanza con conseguenze rilevanti nei prossimi anni sui tassi di dispersione scolastica. Gli studenti più svantaggiati potrebbero rimanere ancora più indietro rispetto ai loro compagni a causa della mancanza degli strumenti necessari per poter seguire le lezioni a distanza. In un tale contesto assume importanza ancora maggiore il contesto familiare con un potenziale incremento del divario tra le famiglie, in grado di sopperire alle mancanze dovute all’interruzione della didattica in presenza e quelle sprovviste o dotate di scarsi mezzi culturali ed economici.
Il Piano Sud è di per sé un’innovazione per la politica nazionale, considerato che l’ultimo momento di elaborazione di una strategia di insieme per la coesione territoriale risaliva all’avvio della Nuova Programmazione. Il Piano è un disegno ambizioso che richiederà un impegno pluriennale non solo di risorse ma soprattutto di azioni di riforma di una macchina amministrativa costruita negli anni intorno alle politiche strutturali spesso pleonastica nelle procedure e debole nel coordinamento tra i troppi soggetti attuatori. L’obiettivo condiviso dalla SVIMEZ è ridurre la parcellizzazione delle strategie e degli interventi, ma si scontra spesso con l’esigenza delle Amministrazioni regionali di soddisfare le molte esigenze locali. Un’accelerazione del processo di razionalizzazione e rafforzamento delle strutture tecniche a supporto dei processi di programmazione e attuazione delle politiche richiede interventi immediati di rafforzamento del presidio nazionale delle politiche aggiuntive per evitare gli errori del passato, soprattutto ora che il Mezzogiorno sarà chiamato a contribuire con le risorse del nuovo ciclo di programmazione 2021-2027 e con gli investimenti aggiuntivi di Next Generation EU alla ricostruzione del Paese post-pandemia.
La SVIMEZ nota che c’è stato un miglioramento dell’avanzamento finanziario dei Programmi in corso d’anno. Tra fine febbraio e fine agosto 2020, risulta una crescita degli impegni dal 60,5 al 69,2% e dei pagamenti dal 31,7 al 39,2% del totale della spesa programmata, per un valore di oltre 3 miliardi. Resta, però, una forte disomogeneità tra Programmi. In termini di pagamenti a valere sul FESR appaiono in maggiore ritardo i POR delle Marche, dell’Abruzzo, della Calabria, sul FSE invece appaiono particolarmente in ritardo i programmi di Sicilia, Campania e Abruzzo. I limiti dell’attuazione investono, oltre alle Regioni, anche molte Amministrazioni centrali. In termini di pagamenti sul totale della spesa programmata il PON Legalità è fermo ad agosto 2020 al 18,1%, mentre il PON Inclusione alla stessa data è fermo al 16,2%.
La sfida, secondo la SVIMEZ, è quella di portare a sistema il rilancio degli investimenti pubblici e privati che si prevede di sostenere con l’iniziativa europea Next Generation Ue, con una politica ordinaria che troppo a lungo si è disimpegnata dal suo compito di perseguire l’obiettivo del riequilibrio territoriale, e con una politica di coesione europea e nazionale che nel nuovo ciclo di programmazione molto dovrà apprendere dai suoi limiti, a partire dai primi segnali positivi registrati in corso d’anno e dalle indicazioni strategiche contenute nel Piano Sud 2030. Solo da una «visione» d’insieme di questo tipo, centrata sulle due questioni dell’interdipendenza tra territori e della connotazione nazionale che ormai ha assunto la coesione territoriale nel nostro Paese, potrà seguire un’effettiva valorizzazione del contributo alla ripartenza del potenziale presente nelle regioni del Sud e negli altri territori in ritardo di sviluppo dove più forti sono i ritardi nella dotazione di infrastrutture e nell’offerta di servizi da colmare; solo così la crescita nazionale potrà andare di pari passo con l’equità sociale e territoriale.
L’orientamento prevalente di una politica industriale centrata sul sostegno ai processi di sostenibilità ambientale e di digitalizzazione delle imprese, benchè auspicabile, rischia di avere un modesto impatto se non accompagnato da misure finalizzate ad accompagnare modifiche strutturali del sistema industriale. Un simile approccio lascerebbe insolute le criticità che attengono al rafforzamento delle dimensioni delle imprese, principale freno allo sviluppo di attività di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, alla possibilità di accedere al credito, alla capacità di competere con successo sui mercati internazionali. E soprattutto la condizione di fragilità finanziaria delle imprese meridionali medio-grandi, maggiormente esposte a problemi di sopravvivenza, in quanto il rischio di default è 4 superiore rispetto al Centro-Nord. A partire dal 2019 si sono mossi alcuni primi passi nella direzione di favorire una declinazione territoriale degli interventi a favore del Sud e di portare a sistema una serie di interventi fin qui implementati in forma frammentaria. Con riferimento alle misure per favorire la crescita dimensionale delle imprese, si ritiene positiva per il Mezzogiorno l’introduzione del Fondo «cresci Sud». Un intervento, specifico e calibrato per le imprese dell’area, può offrire un valido supporto all’accrescimento delle dimensioni di impresa.
Il Rapporto si sofferma su alcune proposte per cogliere appieno l’occasione offerta dalla condizionalità «buona» europea di orientare gli investimenti agli obiettivi della coesione economica e sociale e al sostegno alla transizione verde e digitale. Temi che esaltano il contributo del Mezzogiorno alla ripartenza. Con due priorità. Va innanzitutto riavviato un percorso sostenibile di riequilibrio nell’accesso ai diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale: salute, istruzione, mobilità. In secondo luogo, non può essere più rimandata la definizione di un disegno unitario di politica industriale per valorizzare la prospettiva green e la strategia Euro-mediterranea. Un contributo da Sud alla ripartenza del Paese lo può dare il Quadrilatero Zes nel Mezzogiorno continentale, Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro, da estendersi alla Sicilia. E poi, agroalimentare, bioeconomia circolare, green deal, a partire dal caso dei rifiuti sono occasioni per trasformare i ritardi in un’opportunità.
Fonte: SVIMEZ