Il Consiglio di Stato, sezione II, con la sentenza del 7 luglio 2025, n. 5854 ha affermato, come si legge nelle due massime pubblicate a margine del pronunciamento, e in senso conforme a Cons. Stato, sez. I, parere 3 giugno 2024, n. 739, che in assenza di un espresso e specifico divieto normativo non è vietata al dipendente pubblico (nella specie, al militare della Guardia di finanza) l’apertura di una partita iva strettamente ed esclusivamente funzionale all’esercizio non professionale dell’attività agricola per il corretto adempimento delle facoltà e degli oneri connessi alla proprietà di un fondo rustico, esercitato in modo ancillare rispetto al corrispondente assetto dominicale, in quanto tale tipo di attività non è incompatibile con il principio di esclusività del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Nella nota a corredo si specifica che in motivazione la sezione ha chiarito che: i) l’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (recante il «Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato») e l’art. 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche») vietano espressamente ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici in generale l’esercizio dell’industria e del commercio, ma non l’esercizio dell’attività agricola; ii) la ratio di detta esclusione dal novero delle attività incompatibili con lo status di dipendente pubblico e di militare in servizio permanente effettivo risiede nel contemperamento operato dal legislatore tra il principio di esclusività del rapporto di lavoro del pubblico dipendente con le esigenze, coessenziali alla titolarità di un fondo rustico e peraltro imposte dalla disciplina europea sugli aiuti agli agricoltori, di prendersi cura del terreno (pure tramite terzi incaricati), osservando le ordinarie pratiche agronomiche e di trarne un reddito agrario anche attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli.
Inoltre, ed è la seconda massima, la parte notificante l’atto d’impugnazione ha l’onere accertarsi preventivamente, mediante accesso ai registri pubblici, del corretto domicilio digitale del professionista a cui indirizzare la notifica telematica, cosicché non costituisce errore scusabile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 37 del codice del processo amministrativo, l’errata indicazione, nei precedenti atti giudiziari, dell’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore della controparte.
Conformi: sui presupposti rigorosi della rimessione in termini per errore scusabile: Cons. Stato, Ad. plen., 10 dicembre 2014, n. 33 (in Foro it., 2015, III, 134); successivamente, sez. II, 10 dicembre 2024, n. 9950; 4 aprile 2024, n. 3082; sez. V, 12 giugno 2024, n. 5262; 26 aprile 2024, n. 3833.
Il collegio, in proposito, ha osservato che l’eventuale erronea indicazione dell’indirizzo p.e.c. nel corpo della relazione di notificazione non poteva costituire, nemmeno in astratto, un elemento di scusabilità, ai sensi e per gli effetti dell’art. 37 c.p.a., dell’errata successiva notificazione dell’atto d’impugnazione effettuata dalla controparte se la reale casella p.e.c. era presente nell’indirizzo di partenza della notificazione e, in ogni caso, vi era l’onere di attivarsi per la consultazione dei pubblici registri.
Fonte: Ufficio Massimario Consiglio di Stato