Alleate contro i cambiamenti climatici, scrigni di biodiversità, fonti di risorse irrinunciabili per l’uomo: sono le zone umide del pianeta. Nella Giornata mondiale dedicata ad esse, tenutasi il 2 febbraio, Legambiente ha celebrato i 50 anni della Convenzione di Ramsar che tutela questi ecosistemi tanto fragili quanto essenziali alla vita, proponendo le azioni chiave per la loro salvaguardia nel decennio 2020-2030 e mobilitando, al contempo, volontari e cittadini tra eventi online, in presenza e attraverso un’azione social per valorizzare le zone umide della Penisola, raccontate anche nell’ambito della campagna Change Climate Change.
Dalle torbiere ai sistemi dunali, dalle saline agli acquitrini, le zone umide sono fonte di vita per le numerosissime specie vegetali e animali che da esse dipendono, ma sono strettamente correlate anche alla nostra sopravvivenza. Eppure, i dati del SOER Freshwater 2020 ci dicono che in Europa soltanto il 40% dei corpi idrici superficiali presenta un buono stato ecologico e che le zone umide sono ampiamente degradate, in declino per estensione e qualità a causa di agricoltura intensiva, abbandono delle tradizionali attività agro-pastorali, alterazione degli equilibri idrici, inquinamento (dovuto anche all’uso dei pesticidi), invasione di specie aliene, urbanizzazione e sviluppo d’infrastrutture. Uno scenario che fa il paio con quello mondiale: nell’ultimo secolo, la Terra ha dovuto dire addio al 64% delle sue zone umide. Fallito, a livello globale, l’obiettivo dell’Agenda sullo Sviluppo Sostenibile che prevedeva la protezione e il restauro degli ecosistemi acquatici entro il 2020. Secondo le liste rosse dell’IUCN, oggi nel mondo un terzo delle specie legate agli ecosistemi acquatici risulta minacciato, mentre sono a rischio scomparsa oltre i tre quarti delle paludi e delle torbiere e quasi la metà dei laghi, dei fiumi e delle coste. Ma in pericolo sono anche il mantenimento e il miglioramento dei servizi ecosistemici che proprio intorno alle zone umide ruotano.
Una prospettiva drammatica poiché, essendo rifugio per oltre 100 mila specie d’acqua dolce conosciute, le zone umide sono i più efficaci serbatoi di carbonio del pianeta – le sole torbiere, che coprono il 3% della superficie terrestre, assorbono il 30% del carbonio organico dei suoli – e hanno un ruolo significativo nel contrasto degli effetti dei cambiamenti climatici: barriere naturali contro gli eventi estremi di origine marina, come le praterie di posidonia; capaci di immagazzinare le piogge in eccesso e mitigare gli impatti delle inondazioni, come le pianure alluvionali; o ancora, in grado di preservare endemismi e peculiarità dei paesaggi montani, come le sorgenti e i laghi d’alta quota. Dalle zone umide deriva, inoltre, il 70% di tutta l’acqua dolce utilizzata per l’irrigazione. Da qui lo slogan 2021 scelto dall’ONU per celebrare i 50 anni della Convenzione di Ramsar e la Giornata mondiale loro dedicata: “Acqua, zone umide e vita sono inseparabili”.
“Sebbene si continui a sottovalutare il valore della natura, la pandemia che ci ha colpiti dovrebbe stimolare una riflessione globale sull’urgenza di adottare un approccio ecosistemico per mitigare le conseguenze della perdita di biodiversità e della crisi climatica e i rischi derivanti da ecosistemi tanto fragili quanto essenziali per la qualità delle risorse e delle attività produttive a essi legati, dall’agricoltura alla pesca, alla zootecnia – commenta Antonio Nicoletti, responsabile Aree protette e Biodiversità di Legambiente – Al netto delle difficoltà, il 2020 segna un momento decisivo per misurare gli impegni dell’Ue, a partire dalla Strategia dell’Europa sulla Biodiversità per il 2030 che rende espliciti gli obiettivi del prossimo decennio e sottolinea l’importanza di mantenere ecosistemi sani e funzionali a garantire l’equilibrio climatico: ogni piano in tal senso deve includere un uso sostenibile e responsabile delle zone umide e degli ecosistemi acquatici”. Azione politica e ricerca scientifica, dunque, ma non solo. “Punto focale, al centro del nostro impegno associativo anche per il decennio 2020-2030 – prosegue Nicoletti – sarà la mobilitazione dei cittadini nella cura e nell’adozione diretta di aree umide poco note, considerate minori o non riconosciute con lo status di aree protette. Pensiamo, ad esempio, alle cosiddette ‘marrane’ a Roma, piccole pozze e corsi d’acqua che spesso incrociamo distrattamente, e guardiamo, d’altro canto, alle esperienze costruttive nate proprio nello stesso contesto urbano, come il Parco della Cellulosa: rafforzare la comprensione del ruolo di questi ambienti e promuoverne la gestione virtuosa è fondamentale, specie all’interno delle nostre città dove questi preziosissimi serbatoi di biodiversità e di carbonio possono fare la differenza”.
In coerenza con la Strategia dell’Ue sulla Biodiversità per il 2030, pertanto, Legambiente individua alcuni obiettivi chiave nella sua azione a favore degli ecosistemi acquatici: realizzare nuove aree protette, fare crescere le piccole zone umide adottate dai cittadini anche negli ambienti urbani e aumentare il numero di quelle riconosciute dalla Convenzione di Ramsar per raggiungere l’obiettivo del 30% di territorio nazionale protetto; rafforzare la tutela della biodiversità acquatica e migliorare la sinergia tra norme nazionali e Direttive comunitarie (Habitat, Uccelli, Acque e Alluvioni); migliorare l’integrazione e la gestione unitaria delle aree protette, i siti della Rete natura 2000 e le Zone Umide riconosciute dalla Convenzione di Ramsar e realizzare una rete di enti gestori di questi ecosistemi; ripristinare gli ecosistemi degradati e realizzare infrastrutture fluviali sostenibili per contribuire a ripristinare almeno 25 mila km di fiumi a scorrimento libero in Europa.
Fonte: Legambiente