La nostra Repubblica ha settant’anni.
Le sue origini sono basilari per l’identità dell’Italia: nella sua nascita si sono condensati elementi decisivi.
La Repubblica è sorta ricomponendo l’unità del Paese e, anche per questo, ha contribuito a ridefinire l’identità nazionale.
Dopo il duro ventennio fascista e la sciagura della guerra, un’Italia sconfitta riusciva ad entrare a far parte delle nazioni libere e democratiche. Ritrovata la libertà, con la partecipazione al voto di tutti, donne e uomini del nostro Paese, si realizzava una piena democrazia, imperniata sul Parlamento.
L’introduzione dell’autentico suffragio universale fece compiere all’Italia il vero salto di qualità, trasformandola in una nazione in cui tutti concorrono, in egual misura, a determinare, con il loro voto, le scelte fondamentali.
Furono i cittadini a scegliere la forma di Stato con il referendum, ad eleggere i membri dell’Assemblea costituente, a determinare la formazione dei governi.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza il coraggio e la visione da statista di Alcide De Gasperi che, più delle difficoltà materiali, temeva quelle morali e spirituali di un popolo oppresso, economicamente e socialmente prostrato, dalla sofferta esperienza democratica.
Sotto la guida dello statista trentino è stata garantita la continuità dello Stato italiano, sancendo contemporaneamente la discontinuità rispetto alla monarchia e al regime fascista e poggiando la nuova costruzione democratica su basi diverse da quelle incerte ereditate dallo Stato liberale.
Abbiamo resistito, in Italia allora, a difesa dell’unità di un Paese che era uscito sconfitto dalla guerra. Si pensi che le popolazioni di Trieste e Bolzano non poterono prendere parte al referendum.
Si sono riconosciute le aspirazioni all’autonomia di singole Regioni.
Si sono poste le basi per una politica di progresso sociale e si sono avviate grandi riforme.
Si sono rafforzate le istituzioni democratiche senza rinunciare in alcun modo alla dialettica politica tra i partiti.
Infine, si è data al Paese una chiara collocazione internazionale e la prospettiva europea.
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De Gasperi non fu soltanto il protagonista di tutto questo ma fu anche il costruttore tenace di una diversa idea di Patria. Con la opzione repubblicana nasce un patriottismo basato sul legame indissolubile tra libera scelta democratica del popolo e istituzioni.
Un patriottismo che può essere giudicato sobrio e solido, dopo le ubriacature nazionalistiche della dittatura fascista.
Un patriottismo autentico e sentito, non declamato.
Rispettoso delle culture delle diverse comunità presenti nel Paese.
E’ un patriottismo rafforzato negli anni duri della ricostruzione; un patriottismo dell’esempio e del sacrificio, e dunque non superficiale ed effimero, basato sulle esperienze concrete dell’esistenza quotidiana.
Un patriottismo che avverte in pieno la lezione degasperiana: ricostruire un’identità della nazione nel difficile passaggio dalle deluse aspirazioni nazionalistiche e di potenza alle esigenze di un ordinamento finalmente democratico, in un nuovo ordine internazionale che allora si stava affacciando.
E, oggi, possiamo dire che si tratta anche di un patriottismo veramente europeo, frutto, anch’esso della visione di uno statista che aveva vissuto, e colto, nel breve volgere di mezzo secolo un cambiamento epocale. La decisione degasperiana di un’Italia integrata con le democrazie occidentali e per un’Europa oltre ogni revanscismo, ha posto le basi per un percorso patriottico antiretorico che può abbracciare tutti i giovani europei, spingendoli anche a nuove forme di espressione politica condivisa e sovranazionale.
L’Italia ha risentito grandemente della divisione in blocchi raffigurata dalla “Cortina di ferro” e la Repubblica ha saputo tuttavia contenere e assorbire le spinte centrifughe e antisistema, esterne e interne (penso al terrorismo e allo stragismo), preservando le libertà democratiche.
Frutto anche, di una politica estera rigorosa che trova fondamento nelle scelte degasperiane: l’atlantismo e l’integrazione europea.Sono passati soltanto settanta anni, che non sono molti per un Paes, ma, se guardiamo all’Italia del 1946, possiamo dire che di strada ne abbiamo fatta molta.
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De Gasperi assunse la guida della Repubblica con mano sicura.
Aveva innato il senso dei tempi dei processi di cambiamento politici.
La sua azione nel non facile passaggio alla Repubblica fu magistrale. Volle fermamente il referendum e riuscì a ottenerlo.
Si trovò di fronte alle impazienze di molti, anche all’interno del suo partito. Dopo la conclusione di una tesissima riunione della direzione di questo, disse a uno dei suoi vicesegretari – anch’egli fermamente repubblicano e dal quale l’ho direttamente appreso – «Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».
Prese con decisione le redini della giovane Repubblica, proteggendola con cura, prima di tutto dall’insidia del passato, sempre in agguato. A buon diritto, possiamo riconoscergli l’attributo di “Padre” della nostra Repubblica.
Quando esitazioni e incertezze potevano produrre danni o gravi pericoli non gli mancava il coraggio di assumere decisioni forti. Il coraggio di De Gasperi non era quello di un uomo impulsivo, bensì di un uomo esperto e tenace.
Mario Bracci, ministro nel suo governo per il Partito d’Azione, lo aveva accompagnato al colloquio con Umberto II nella serata del 10 giugno e riferirà, a fronte delle tergiversazioni del Quirinale: “(De Gasperi) non vuole il conflitto (con la monarchia) ma è persuaso della giustezza della tesi del governo, sa che il popolo, nella sua maggioranza, ha voluto la repubblica e ne sente il comando di cui avverte più il peso morale che quello politico. E’ quasi commovente quest’uomo mite, che non ha origini repubblicane e che ora, da galantuomo, affronta deciso e sereno la lotta contro la corona per obbedire al popolo”.Al Museo della sua casa natale abbiamo poc’anzi scoperto una piccola iscrizione che ci ricorda che De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato dal 13 alla fine di giugno del 1946.
Questo evento, di solito eclissato nella pubblicistica corrente, lega la figura di De Gasperi – primo Capo dello Stato repubblicano – in maniera ancor più significativa alla nostra Repubblica.
De Gasperi era consapevole delle titubanze di Casa Savoia e delle inconsistenti contestazioni di esponenti monarchici ed era preoccupato dalla notizia che per il Re era stato preparato un discorso alla nazione che avrebbe gettato una luce nefasta sul referendum istituzionale e sulla nuova classe politica, legittimata finalmente dal voto popolare. L’Italia era in bilico e i sanguinosi scontri di Napoli lanciavano segnali allarmanti.
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1946, ad annuncio avvenuto della Cassazione sui risultati del referendum istituzionale, il leader trentino convocò il Consiglio dei ministri e, sostenuto anche dalle sinistre, ruppe gli indugi, assumendo, secondo la legge, la responsabilità delle funzioni di Capo dello Stato così come previsto dal decreto luogotenenziale del marzo precedente, che faceva parte della cosiddetta Costituzione provvisoria. Iniziava così la “Presidenza breve” di De Gasperi.
Giorni segnati da gesti affatto ordinari: il commissariamento del Senato di nomina regia, privo ormai – con la Repubblica – di funzioni e di legittimazione e la decretazione dell’amnistia proposta dal Guardasigilli Palmiro Togliatti.
Nel dare avvio alla Repubblica lo statista trentino aveva usato la bella formula “una Repubblica di tutti” che può essere accostata ad un’altra espressione che lo rappresenta bene: “Fare politica non al servizio di se stessi”.
Troviamo tracce di questo nel suo discorso agli italiani dai microfoni della radio, da Capo provvisorio dello Stato, il 14 giugno 1946: “Non imprechiamo, non accaniamoci tra vinti e vincitori. Uno solo è l’artefice del proprio destino: il popolo italiano che, se meriterà la benedizione di Dio, creerà nella Costituente una repubblica di tutti, una repubblica che si difende sì ma non perseguita; una democrazia equilibrata nei suoi poteri, fondata sul lavoro, ma giusta verso tutte le classi sociali; riformatrice ma non sopraffattrice e soprattutto rispettosa della libertà della persona, dei Comuni, delle Regioni”.
La Repubblica, decisa dal voto del 2 giugno, a quel punto, era ormai in atto. Alla Costituente il compito di dargli forma.
Più avanti, nel corso dell’attività dell’Assemblea Costituente,resistendo anche alle perplessità del Vaticano, De Gasperi chiudeva la fase dei governi della Liberazione e formava il primo governo politico, legittimato dagli elettori. Teneva nelle sue mani anche il ministero degli Esteri e degli Interni.
Il leader trentino – mentre il mondo, in politica estera diventava bipolare – manifestava una visione “trialistica” della situazione italiana, con un centro democratico opposto a una sinistra e a una destra considerate anti-istituzionali, attento tuttavia, ha ricordato Leopoldo Elia proprio in questa sede, al rischio dell’assedio alla democrazia vissuto dalla Repubblica di Weimar.
La giovane Repubblica andava difesa da tutte le numerose insidie esterne, ma anche interne, prima tra tutte la violenza fratricida e i disordini.
De Gasperi avvertiva acutamente l’esigenza, come disse nel Consiglio dei ministri del 29 agosto 1946, di non fare “la figura e la fine di Facta”, alludendo al governo che nel 1922 non era riuscito a fronteggiare la violenza squadrista e non aveva difeso come avrebbe dovuto la dignità dello Stato.
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La politica non era per lui una passione solitaria, ma un’alta e generosa professione di servizio alla comunità.
Qualsiasi fosse la sua dimensione e la sua consistenza, – la minoranza italiana ai confini dell’Impero, le vaste popolazioni del Regno d’Italia o il popolo di cittadini di una nuova Repubblica europea – De Gasperi sapeva come rappresentare l’autentico spirito del popolo. Aveva consapevole timore della meschinità umana, ma un più grande convincimento della forza che poteva svilupparsi dalla solidarietà tra cittadini liberi.
La lotta alla miseria non gli appariva la conclusione di un ragionamento ideologico, ma la premessa per vivere una vita dignitosa, condizione per una vera cittadinanza. Il punto di partenza è il riconoscimento del fatto che gli esseri umani “agiscono come liberi e non come schiavi”. Riconoscimento fondato – diceva De Gasperi – “sul concetto dell’uomo come persona umana”: ovvero sul fatto che l’uomo è “più un tutto che una parte”.
La libertà era la cifra del suo impegno politico.Il primo elemento di una coscienza democratica diffusa è dunque “il senso della dignità della persona umana”, il cui frutto maturo è “l’uguaglianza di fronte alla legge e nell’organizzazione politica”.
Come è noto, dava grande importanza alla politica estera e se ne occupò direttamente, riconoscendo alla diplomazia una funzione essenziale per la tutela dei diversi popoli, ma, prima di ogni accordo tra governi, metteva la concretezza dei bisogni umani. Tutti gli studiosi riconoscono oggi l’importanza delle riforme realizzate o anche soltanto impostate dai governi degasperiani.
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Il suo approccio alle relazioni umane lo spingeva a considerare il confronto pubblico un metodo universale di comportamento e sapeva che qualsivoglia regolamentazione non poteva prescindere dalla considerazione degli usi e dei costumi delle comunità.
L’Italia, che nella seconda guerra mondiale aveva sofferto tanto, nel 1943 si era riscattata lottando contro il nazifascismo, ma anche quest’ultima prova non avrebbe avuto un senso se non si fosse tradotta in una prospettiva politica nuova, dove le diversità, i vari interessi e le ideologie, si fossero rimodellati alla luce di esigenze superiori: la libertà, la pace, il progresso sociale.
A questi principi dovevano corrispondere virtù politiche specifiche: semplicità di vita, sobrietà nei gesti e nella parola, tensione morale, capacità di ascolto.
Umanesimo integrale era la formula del filosofo cattolico Jacques Maritain, amato e tradotto da mons. Giovanbattista Montini, l’amico dello statista trentino. Ma l’integralità – concetto molto diverso da integralismo – per De Gasperi voleva dire anche «integrità», sostanza morale e rispetto della legalità e delle istituzioni.
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De Gasperi fu sempre contrario ad ogni negazione della dimensione spirituale in politica ed era consapevole che, se a un qualunque problema corrispondeva una soluzione tecnica, nessuna scelta poteva essere compiuta senza discernimento politico.
Il mondo democratico – come ha detto Vàclav Havel – “non è una griglia di parole crociate in cui vi è una sola soluzione corretta”, ma qualche cosa di più complesso, dove non bastano le risposte tecnocratiche.
Da uomo nuovo nel Regno d’Italia, De Gasperi aveva compreso che solo l’avvento della democrazia politica avrebbe rappresentato, per l’Italia, l’occasione per completare il percorso risorgimentale, che si era spezzato, e per agganciare il Paese a una “Patria europea” necessaria per dare compimento al sogno democratico occidentale.
Le sue radici affondavano nel movimento cattolico e aveva compreso che soltanto nella libertà e nella democrazia l’ispirazione cristiana avrebbe potuto esprimere fino in fondo il proprio potenziale, ma conosceva anche l’impreparazione dei cattolici e talune resistenze nella Chiesa.
Alla figlia Lucia, religiosa dell’Assunzione, che gli chiedeva un parere su un filosofo reazionario del XIX secolo, Donoso Cortès, che prospettava la “catastrofe apocalittica della civiltà moderna”, il 21 settembre 1948 rispose “che egli era apocalittico e pessimista e dava troppo poca importanza alla democrazia come metodo politico-parlamentare mentre per spingere i cattolici alla battaglia bisogna(va) avere fede nel sistema (democratico) ed essere ottimisti”.
Queste parole di De Gasperi contribuiscono a spiegare anche come il suo rifiuto del proposito di bandire dalla politica la dimensione spirituale costituisse la base della sua autentica laicità, del suo senso della laicità della politica, manifestata in tanti passaggi significativi della sua esperienza.Tra la complessità delle mediazioni che era chiamato a tessere e la forza d’animo vi era in De Gasperi una linea retta.
Quando si concluderà la preziosa impresa della edizione nazionale dell’epistolario degasperiano, appena promossa dalla Fondazione trentina che ci accoglie, sapremo certamente misurare ancor di più lo spessore della sua interiorità, la sua forza intellettuale e anche la efficacia del suo linguaggio e della sua scrittura.
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Alcide De Gasperi è anche uno dei Padri dell’Unione Europea.
Il suo non fu soltanto l’europeismo di chi cercava una sponda politica e commerciale internazionale, non fu un universalismo da vecchia Società delle Nazioni: esso aveva invece radici culturali e politiche molto profonde, che divennero la preoccupazione centrale degli ultimi anni della sua vita, tra il 1950 e il 1954, anni talvolta anche ingrati, quando affrontò momenti difficili.
De Gasperi aveva vissuto la crisi dei grandi imperi. Come altri grandi leader del Novecento aveva avvertito la stagione dei totalitarismi, non soltanto come una sconfitta politica, ma anche come una crisi di civiltà.
Conosceva perfettamente il gioco politico tra le nazioni e, sull’esperienza del dopo primo dopoguerra, non si illudeva che, senza un impegno stringente, sarebbe automaticamente prevalsa la logica della pace e della cooperazione tra i popoli.
Era convinto, a ragione, che il mondo germanico e il mondo latino avessero entrambi da guadagnare nello stare vicini e che il mondo anglosassone e americano rappresentasse il miglior esempio al mondo di lungimiranza democratica.
Sperimentata la strada di una Unione doganale italo-francese che rilanciasse una missione dei Paesi latini nel mondo, De Gasperi si mosse decisamente sulla via della integrazione occidentale, nel cui ambito la dimensione europea avrebbe ben presto acquisito rilievo.
De Gasperi intuiva che l’Europa non era una prospettiva da tempi ordinari, ma per tempi straordinari, e per leader autentici, e che, se si fosse lasciato passare troppo tempo, l’assestarsi del quadro economico internazionale e lo stesso venir meno della fase più dura della guerra tra i blocchi, avrebbe potuto sospingere le nazioni europee nelle braccia di politiche nazionaliste ed egoiste. Guerra e violenza dovevano, nella sua visione, essere bandite dall’Europa, ferma restando la rigorosa, incondizionata e ferma opposizione ad ogni totalitarismo nemico del genere umano.
Aveva sempre pensato che un’unità europea fosse possibile soltanto con un esercito comune e con una moneta europea, ma al momento opportuno intuì che l’ipotesi Schuman della costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (la Ceca) era una risposta efficace per legare la dimensione europeistica alla questione sociale, alla produzione materiale e alla circolazione dei lavoratori, a vantaggio del progresso, senza, per questo, cedere a visioni funzionalistiche dell’unità europea.
Nessuna prospettiva federalista europea avrebbe, inoltre, potuto affermarsi senza l’attribuzione di poteri costituenti a nuove assemblee politiche.
Si batté, quindi, con l’appoggio degli Stati Uniti e nonostante le resistenze britanniche, affinché nel progetto di trattato sulla Comunità europea di Difesa (la CED) si scrivesse che la sua assemblea parlamentare avrebbe agito come una specie di Costituente europea, per arrivare a una proposta politica in senso federale.
Siamo ancora lontani da questo obiettivo, ma esso era, e rimane, l’unico storicamente valido. Viene da pensare, con rammarico, alla recente fatica della Convenzione che ha portato, per gli insuccessi nei referendum francese e olandese, alla bocciatura della Costituzione Europea e al successivo Trattato di Lisbona, molto meno ambizioso.
L’Unione Europea non può ritrarsi dalle sue responsabilità e il cosiddetto metodo intergovernativo nelle decisioni non può surrogare il valore democratico delle istituzioni europee, specie del Parlamento di Strasburgo. Tanto meno questo può avvenire dopo la decisione nel referendum britannico che richiede un rilancio dell’integrazione e non una sorta di appiattimento sulle resistenze che hanno condotto a quel risultato negativo.
A sfide sempre più globali occorrono risposte politiche europee, concordate a tutti i livelli.
Sia il terrorismo, siano le crisi finanziarie, sia il tema delle migrazioni, nessun Paese è in grado di affrontarle da solo, soprattutto in Europa.
Cornice repubblicana e cornice europea, insieme, sono quindi l’ambito più efficace dell’iniziativa dell’Italia contemporanea.
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Anche l’autonomia del Trentino e dell’Alto Adige-Sud Tirol va letta in modo propositivo e nello spirito dell’unità nazionale ed europea.
De Gasperi era un trentino che aveva vissuto con la sua gente il disagio di essere troppo lontani da tutto, da Vienna e da Roma.
Sempre alla ricerca di un difficile equilibrio istituzionale e sociale si batté per dare a questa ricerca il supporto di un’autentica partecipazione democratica alla vita sociale: è stata una visione vincente come dimostrano i risultati che in queste Province sono stati raggiunti in molti campi.
De Gasperi fu tra i pochi che vide che i confini, anche quelli naturali, non bastano a garantire la convivenza e la pace: «Registrare al di qua e al di là del Brennero dei contrasti locali e regionali è cosa facile… – disse nel discorso tenuto a Trento il 25 novembre 1948 – ma la principale virtù della democrazia è la pazienza. Bisogna attendere alle cose con tenacia e vigilanza, con la coscienza che le cose debbano sempre maturarsi». La riconferma delle frontiere del 1919 fu una decisione delle quattro potenze alleate e De Gasperi seppe tradurla in una esperienza esemplare per la convivenza tra i popoli.
Le storie di confine sono sempre storie multilaterali. Questa consapevolezza e la lungimiranza di De Gasperi e del ministro austriaco Gruber condussero all’Accordo del 5 settembre del 1946.
L’autonomia non è un fatto contabile o uno scudo contro presunte invasioni di campo.
E’ un investimento in positivo che richiede l’impegno di tutte le istituzioni, da una parte e dall’altra.
Non è un privilegio immeritato, ma certo impone un supplemento di responsabilità.
Sudtirolesi, altoatesini, ladini e trentini sanno di dovere vivere la loro autonomia come esempio di responsabilità, d’intelligenza non localistica e anche d’innovazione politica, come qualcosa che non riguarda soltanto i loro interessi materiali.
De Gasperi – come disse alla Assemblea Costituente – era contro le “repubblichette che pretendessero di disgregare l’unità della Repubblica” e comprese prima di altri il beneficio che una solida Repubblica unita avrebbe arrecato a tutte le minoranze, e ne avrebbe ricevuto, e fece ogni sforzo per migliorare i rapporti tra italiani e sudtirolesi, anche grazie all’impegno dei trentini.
Era convinto che l’ottenimento effettivo dei diritti naturali della minoranza etnica tedesca, e il loro rispetto, sarebbe stato aiutato dalla compartecipazione dei trentini, che avevano anche loro conosciuto – soprattutto nei duri anni della Prima guerra mondiale – il disagio, a parti invertite, di essere una minoranza incompresa.
De Gasperi voleva dimostrare che l’Italia era capace di «spirito di larghezza» e che – come ribadì il 29 gennaio 1948 nell’aula della Assemblea Costituente – “l’Italia democratica era ben diversa dall’Italia fascista e che il metodo del governo attuale era quello di fare appello alla fiducia dei popoli e alla libera collaborazione”. L’ambizione era alta: il ministro degli esteri britannico, Ernest Bevin, non ebbe dubbi nell’auspicare che la questione sudtirolese diventasse un esempio di come i popoli possono evitare che il nazionalismo abbia il sopravvento sul buonsenso e sulla soluzione dei problemi concreti.
Un auspicio che, a giudizio degli studiosi, si è tradotto in un “unicum” per l’Europa, in termini di protezione delle minoranze e di collaborazione transfrontaliera. Un’autonomia la cui definizione e integrità costituisce motivo di orgoglio per la democrazia italiana.Un esempio su cui riflettere e a cui guardare ancora oggi nella comunità internazionale.
Il depotenziamento della frontiera del Brennero, del tema etnico-nazionale, ha permesso di affrontare in modo costruttivo il rispetto e il riconoscimento delle attese delle popolazioni coinvolte.
Oggi, dopo l’ingresso dell’Austria nella Ue e con il Trattato di Schengen, si sono definitivamente superate e tradotte in collaborazione rivalità secolari e ferite della storia. Guai a porre in dubbio, per motivi contingenti, questo storico risultato.
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In un celebre discorso del 1948, a Bruxelles, su “Le basi morali della democrazia”, De Gasperi ebbe a spiegare che la politica non si fonda sulla distinzione astratta tra l’uomo pubblico e l’uomo privato, ma sulle condizioni storiche date e sulle condizioni sociali su cui poter fare affidamento nell’impegno politico.Il capitale politico di cui un Paese dispone non può essere separato da chi ne è titolare, dalla sovranità popolare, diversamente da quanto avviene per altre forme di capitale.
La democrazia, per De Gasperi, necessita di alcune virtù collettive: di una “attiva coscienza democratica” che deve essere “operante nel popolo”: di una democrazia irriducibile a “un regime di istituti” solo formali, e che deve piuttosto diventare “una filosofia interiore che si alimenta non solo degli elementi razionali nell’interesse comune, ma anche e soprattutto degli elementi ideali che pervadono le tradizioni spirituali e sentimentali e la storia della nazione”. Da queste sue parole consegue il riconoscimento – per ogni essere umano – della possibilità di mettere in atto uno “sforzo di liberazione interiore” fondato su una capacità di libertà che è al contempo un dono e un compito: qualcosa che si riceve, ma anche una responsabilità.
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Per De Gasperi, vi era un’altra virtù il cui esercizio era indispensabile per la salute della democrazia. Era la virtù della “pazienza” “di fronte alle lentezze dell’uomo”.
Non si trattava semplicemente di esser calmi e di mantenere i nervi saldi: si trattava di esercitare la speranza.
De Gasperi è più sorprendente di quanto si creda: sempre nel discorso di Bruxelles del 1948 disse: “Non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività, non abbiamo il diritto di disperare della storia, poiché Dio lavora non solo nelle coscienze individuali, ma anche nella vita dei popoli”. Così De Gasperi.
Non abbiamo il diritto di disperare!
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Le preoccupazioni e le esortazioni del grande statista restano valide anche oggi, particolarmente riguardo all’Europa.
L’unità europea, in un certo senso, è sempre un’impresa in salita, dove alle difficoltà e alle visioni anguste si devono contrapporre fattori ideali e politici.
Senza una memoria condivisa sulla storia dell’Europa moderna, continente straordinario per innovazioni di ogni genere, ma anche in preda a forti tensioni, non sarà possibile cogliere il valore politico di una unione che va molto al di là delle convenienze minute e particolari.
La matrice umanistica dell’Europa non è soltanto di tipo estetico e letterario, ma civile: l’Europa moderna ha nel cuore un’idea fattiva e attiva del bene e del progresso economico e sociale e premia l’accordo tra la concretezza dei bisogni e il riconoscimento di sempre nuovi diritti.
Sprovvista delle sue autentiche ambizioni l’Europa non può esistere. Non sono le banche o le transazioni commerciali che hanno determinato l’Unione europea, ma uomini politici e parlamenti lungimiranti: non sono le crisi finanziarie che potranno distruggerla, ma soltanto la nostra miopia nel non riconoscere il bene comune.
Dare voce a chi, soprattutto tra i giovani, sente già l’Europa come il proprio ambiente di vita; tradurre in regole ciò che è già vissuto come naturale, talvolta persino avvertito come scontato; dare risposta a chi è in difficoltà, lavorando per una politica di solidarietà civile diffusa: questo è il compito dei politici per il futuro. Un compito di preveggenza, non di retroguardia, non di affannosa rincorsa di sfide inattese.
Un compito d’ intelligenza, non di approssimazione o superficialità.
In una parola un compito ideale, a cui devono prepararsi coloro che si sentono così fiduciosi nella dignità della politica da sentirsi interpellati davanti a uomini come De Gasperi.
La storia ce ne mostra la levatura. La passione civile la vicinanza.
Tutti abbiamo il dovere di guardare al suo insegnamento, e al suo coraggio, per trarne ispirazione di fronte ai problemi attuali, difficili ma certamente non di più di quelli che De Gasperi, nel suo tempo, ebbe il compito di affrontare.