Citta dei Mexihcah. Così è chiamata, dai popoli sottomessi, la capitale dell’Impero Mexihcah (o Azteco come li ribattezzò Alexander von Humboldt a metà XIX secolo). Neppure i cattolicissimi spagnoli – quelli capaci di nuovi toponimi quali “Nuestra Señora la Reina Virgen de los Ángeles del Río de la Porciúncula de Asís” alias Los Angeles, California – oseranno cambiare questo nome. Perché Tenochtitlan – Città dei Mexihcah è un gioiello sorprendente per i nuovi “padroni” delle Americhe. Perché Tenochtitlan – Citta dei Mexihcah è stata fondata sul sito di una potente visione: un’aquila che uccide un serpente. E se quella stessa aquila che uccide un serpente appare oggi nella bandiera ufficiale degli Stati Uniti del Messico significa che quella capitale, dei Mexihcah, all’alba della conquista dell’America ha veramente segnato l’immaginario di caballeros, missionari, soldataglia, avventurieri, furfanti e visionari d’ogni genere provenienti dal Vecchio Mondo.
Quando giunge a Tenochtitlan nel novembre del 1519, Hernàn Cortés ha 34 anni, è un nobile spagnolo di provincia temprato dal campo di battaglia e dalle imprevedibili asprezze del Nuovo Mondo. La scoperta del genovese al servizio di Isabela è recentissima, risale a soli 27 anni prima, gli europei non possiedono certezza alcuna di ciò che hanno di fronte e chi è disposto a rischiare attraversando l’oceano su dei gusci di noce per inoltrarsi tra isole sconosciute e giganteschi estuari di misteriosi fiumi continentali, va detto, ha fegato da vendere. Gli equipaggi sono spesso composti da bravacci che hanno poco da perdere e nelle stive trovano rifugio come clandestini galeotti e disperati vari sui quali si chiude un occhio, tanto laggiù la carne da macello non basta mai; ma chi comanda, la fedina penale – almeno quella ufficiale – deve averla immacolata come la Vergine che si incarica di portare a far conoscere a quei selvaggi e possibilmente il suo sangue deve essere quantomeno azzurrognolo, anche se di schiatta bastarda.
Gli spagnoli giungono nel Messico continentale (Yucatàn) nel 1518 ed entrano in contatto con i Maya i quali grosso modo illustrano direttamente e indirettamente ai nuovi venuti – si può immaginare la sensibilità dei conquistadores a parole come “impero, città, ricchezze” – la situazione geopolitica di quella porzione di centroamerica. Vi è un popolo, i Mexihcah che domina su tutti esigendo dalle altre tribù gabelle e persino schiavi da sacrificare sui propri altari. L’avventuriero Hernàn Cortés rompe gli indugi sbarcando nel febbraio 1519 presso l’attuale Veracruz e per soffocare sul nascere anche solo l’idea di un ammutinamento smonta pezzo per pezzo gli undici brigantini su cui è arrivato con cinquecento uomini. A novembre di quell’anno si fa condurre da un manipolo di indios desiderosi di vendetta nei confronti degli Aztechi sino al lago Texcoco, al cui centro risplende una capitale di 300.000 abitanti arricchita da templi, mercati, viali, dimore di lusso e case popolari su più piani, una sorpresa che folgora gli spagnoli. A quel tempo, almeno nella parte di mondo conosciuta dagli europei, tali ragguardevoli dimensioni le potevano raggiungere solo Parigi, Napoli e Costantinopoli ed è altamente probabile che quasi nessuno della truppa di Cortés fosse mai stato in una sola di queste tre metropoli dell’epoca. Meno di due anni dopo, a fine agosto 1521, Tenochtitlan – Città dei Mexihcah non esiste più, distrutta dell’esercito invasore di Cortés e dei suoi alleati indios.
É controversa la storia secondo cui l’Imperatore dei Mexihcah Montezuma abbia scambiato Cortés per il dio Quetzalcoatl adorato in centroamerica, e lo abbia per questo accolto a braccia aperte neppure immaginando ciò che attendeva lui e il suo popolo. Certo è che l’incontro tra spagnoli e Mexihcah in questa valle a duemila metri di altezza costituisce il seme – forte – di quella “mezcla” in cui si formerà il moderno Messico, situazione che non ha eguali in nessun’altra parte delle Americhe. L’impronta degli Aztechi – Mexihcah è così forte e radicata da indurre persino degli invasori iconoclasti come gli iberici del tempo a farci i conti ed assorbire parte di quella cultura. Cortés si ritirerà in un villaggio poco fuori le rovine fumanti di Tenochtitlan e da lì stabilirà la ricostruzione di una nuova Città dei Mexihcah, consacrata alla Vergine e ai reali di Madrid. Rimane un mistero del perché non cambiò il nome in tutto quel fiorire, in quei giorni, di Veracruz e Trinidad. Oggi Coyoacan – il “pueblito” dove risiedeva Cortés – è considerato il nucleo primigenio della capitale messicana, il quartiere di bohème circondato dai grattacieli, dove abiteranno anche Trozky, Frida Khalo e Diego Rivera.
Sarà questa città a diventare capitale della Nuova Spagna non una sulla costa, nonostante l’importanza del Caribe come centro di gravità dell’Impero spagnolo in terra americana, nonostante i duemila metri di altitudine e nonostante la scarsità di acqua potabile essendo il lago Texcoco piuttosto salmastro. Città del Messico ha potuto respirare sia l’aria anarco-rivoluzionaria dei Caraibi poco distanti e quella anche più libera degli immensi spazi quasi vergini a nord sino al Rio Grande e a sud sino all’istmo di Panama. Spazi intrisi di silenzio, mito e antiche culture mesoamericane che dalle campagne alle città hanno trovato straordinari punti di contatto mistico-religiosi con il cattolicesimo dei nuovi arrivati. I suoi tratti levantini e la posizione appartata nel centro del Paese – e del Continente – ne hanno fatto un porto sicuro per molti, dagli esuli politici – vi giunsero numerosi argentini in fuga dalla dittatura e negli anni ’50 vi soggiornò il giovane Castro che qui conobbe un certo Guevara – a quelli spirituali, coi gringos che scendevano da nord alla ricerca di un luogo dove perdersi, senza passato, presente e futuro.
Oggi “El Monstruo” – come la chiamano i messicani – può essere considerato l’archetipo della megalopoli. Ventisei milioni di abitanti (erano 3,5 nel 1950), 70 km di estensione nord-sud e 50 estovest, dodici linee della metropolitana – inaugurata nel 1969 – che soprattutto in centro presenta tratti stilistici e funzionali che non hanno niente da invidiare a quella di Tokyo, Londra e New York, immense periferie che pare d’essere fra la upper class di Miami o fra le baraccopoli di Rio – il sobborgo di Nezahualcoyotl, un milione e mezzo di abitanti per buoni tratti a favela, cresciuta da sé e quasi priva di servizi -, quartieri controllati dai narcos e il centro coloniale più grande del mondo tutelato dall’Unesco così come il prestigioso Campus Universitario dell’UNAM edificato nel secondo dopoguerra dai più prestigiosi architetti e artisti messicani dell’epoca, una city di grattacieli avveniristici da cui si gestisce l’intero Messico (metà del PIL del Paese si produce qui), cumuli di vecchie discariche dentro gli antichi laghi aztechi e un servizio avveniristico di riciclaggio rifiuti come solo in Germania, un inquinamento fra i più pericolosi del mondo (si raccontava negli anni ’80 che mettendo un canarino in gabbia al centro di “Insurgencia”, l’arteria che taglia la metropoli da nord a sud per 32 km, il piccolo volatile sarebbe morto dopo un’ora per le esalazioni di monossido di carbonio) e polmoni verdi recuperati di recente dall’oblio o strappati al deserto circostante.
Benedetta dal sangue Mexihcah e spagnolo, arricchita da quello dei tanti viandanti, fuggitivi, avventurieri portati qui dal destino, percorsa dall’elettricità dei poli opposti della “mezcla”, è Ciudad de México, dove fu un’aquila, più che San Giorgio, a uccidere il serpente.