Porto Flavia, terrazza sospesa a mezz’aria su una parete rocciosa strapiombante nell’azzurro mare sardo, è il luogo emblematico per chi va alla scoperta del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna dallo 17 novembre 2015 diventato ufficialmente sito UNESCO. La già costituita rete mondiale dei Geoparchi – formata da 120 parchi di 33 nazioni – ha infatti assunto importanza prioritaria per l’organizzazione internazionale, che nella Conferenza Generale di Parigi ha creato l’apposita sezione Unesco Global Geoparks nell’ambito del vasto patrimonio tutelato.
L’istituzione del Parco Geominerario di Sardegna, formalmente risalente al 2001, trae origine dalla constatazione di come l’attività mineraria sull’isola abbia finito col modellare il paesaggio, col determinare la cultura delle popolazioni impegnate nelle attività minerarie dando vita ad un ambiente che custodisce importanti ed affascinanti testimonianze di archeologia industriale, legate a suggestivi mondi sotterranei spesso immersi in una natura di straordinaria bellezza; il tutto però senza dimenticare che questi luoghi hanno visto a lungo protagonisti migliaia di uomini impegnati, nell’interesse della collettività, in un lavoro durissimo, spesso costretti ad operare in condizioni disumane, sottopagati e sottoposti a turni di lavoro massacranti o vittime di incidenti mortali. Conservare e conoscere questi luoghi è soprattutto rendere omaggio al loro sacrificio.
Ottenere “entro un anno e mezzo la carta verde” concessa ai geositi che rispondono ai criteri previsti dall’Unesco, al posto dell’attuale gialla (ma c’è anche la carta rossa) che ad oggi mette il Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna per così dire ‘sotto esame’ in attesa che risolva alcune lacune, in particolare informativa e di comunicazione. È l’ambizione del neo direttore del Parco, Ciro Pignatelli che, eletto sette mesi fa, con il presidente Tarcisio Agus guida la nuova governance del Parco dopo 17 anni di commissariamento.
Le osservazioni mosse dall’Unesco al geoparco riguardano, in particolare, l’assenza di una comunicazione efficace che lo renda pienamente riconoscibile e fruibile ai turisti, come la cartellonistica informativa in grado di identificare e raccontare i luoghi. O le indicazioni stradali per guidare i visitatori in quello che è il geoparco più esteso d’Europa. Un totale di 384mila ettari che comprendono 87 comuni e suddiviso in 8 aree (la più grande è quella del Sulcis Iglesiente) che raccontano una storia mineraria che in Sardegna affonda le sue radici nel Paleolitico.
Storia quasi finita, con la chiusura delle miniere a partire dagli anni 60 quando la Sardegna ha dovuto confrontarsi con realtà in cui estrarre è molto più economico. Restano le cave di pietre ornamentali, talco e minerali come la fluorite. Ma le grandi miniere, quelle storiche, sono tutte ormai chiuse e ora si cerca un nuovo equilibrio tra la dismissione dei siti estrattivi e una nuova forma di turismo e sviluppo per il territorio.
“Qui, oltre alla bellezza di luoghi e paesaggi che non hanno niente da invidiare al resto della Sardegna, c’è qualcosa in più, c’è la storia mineraria, la memoria dei minatori, ma manca il turismo nonostante abbiamo tutte le carte in regola”, dice all’Adnkronos il direttore Pignatelli che per il bacino minerario sardo, con la sua archeologia industriale, i km e km di gallerie e i villaggi di minatori abbandonati, sogna un rilancio turistico sul modello della Ruhr”.
“Poche le strutture ricettive e fatica a prendere piede la cosiddetta ospitalità diffusa”, dice Pignatelli. È uno dei temi su cui lavorare, insieme al risanamento ambientale delle numerose discariche nate dall’attività mineraria, i cosiddetti abbancamenti sterili, dove con un piano ambientale si potrebbe da una parte recuperare ancora il minerale che, con i vecchi procedimenti, non era stato ricavato dagli scarti, e dall’altra abbattere gli inquinanti. E perché no, puntare a candidare il bacino a patrimonio dell’umanità Unesco.