Dopo anni di negoziati, la Conferenza Onu di Parigi ha approvato il 12 dicembre in un tripudio di applausi uno storico accordo sul clima per fermare il surriscaldamento del Pianeta. “Devo battere con il martello, è un piccolo martello ma credo possa fare grandi cose”, ha commentato il presidente della Cop 21, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, dopo aver sancito quello che Francois Hollande ha definito “un accordo che vale per un secolo. Un’intesa giuridicamente vincolante nel processo di dichiarazione dei contributi nazionali, verifica quinquennale e aggiornamento, oltre che per i meccanismi di trasparenza”. Il premier Matteo Renzi ha definito l’intesa un “passo avanti decisivo”. Di “impresa storica” ha parlato anche il premier britannico, David Cameron, mentre per Barack Obama è un risultato “enorme”, frutto della “leadership americana”. “È un exploit”, ha esultato anche il ministro dell’Ambiente lussemburghese, Carole Dieschbourg, in rappresentanza della presidenza dell’Ue, per la quale “questo è il successo dell’Europa, di tutti i Paesi coinvolti nel processo, della società civile e di tutti quelli che ci hanno aiutato ad arrivare a questo accordo ambizioso, vincolante e giusto. “Per oggi festeggiamo, da domani dobbiamo fare”, ha aggiunto il commissario europeo all’Energia, Miguel Arias Canete. Non solo Europa e pochi altri, come a Kyoto. Stavolta, l’accordo ha raccolto un consenso quasi generale, anche dai ‘grandi inquinatori’, gli Usa, ma soprattutto i paesi definiti in via di sviluppo, Cina e India, che hanno voluto esprimere il proprio apprezzamento davanti alla plenaria. Unica voce disosnante nel coro, il Nicaragua, che ha rifiutato di sostenere il consenso generale e ha denunciato alcune mancanze nel testo, in materia di “ambizione” e di garanzie sui finanziamenti, chiedendo di creare un “fondo di compensazione” legato alla “responsabilità storica” e che anche i Paesi del Centroamerica siano inseriti tra i più vulnerabili. In materia di contenuti, l’accordo è un sottile esercizio di diplomazia applicata. La soglia per il riscaldamento globale è fissata “ben al di sotto dei 2 gradi”, ma prevede anche un impegno a “fare sforzi per limitare l’aumento a 1,5°”, in linea con le richieste degli Stati insulari. Sulla riduzione delle emissioni, invece, si ‘accontentano’ i Paesi produttori di idrocarburi, a cominciare dall’Arabia Saudita. Il testo non parla di “neutralità carbonica”, ma di “equilibrio fra emissioni da attività umane e rimozioni di gas serra”, e non fissa una timeline precisa, limitandosi a imporre di “raggiungere il picco il più presto possibile e poi accelerare per arrivare all’equilibrio nella seconda metà di questo secolo”. Molto si dovrà fare per la transizione verso le energie pulite. Sui finanziamenti, il punto più scottante, ai Paesi avanzati viene ribadito l’obbligo di “fornire risorse” per supportare quelli in via di sviluppo, e si chiede di stilare una “roadmap precisa” per arrivare a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020. Spariscono però tutti gli aggettivi proposti nella bozza per definire queste risorse, tra i quali “adeguate” e “accessibili”, ma anche “nuove” e “incrementali”, e non ci sono vincoli sulla suddivisione dei fondi tra mitigazione e adattamento. Su un possibile allargamento della lista dei donatori ai Paesi emergenti, l’accordo si limita a incoraggiare “altre parti a fornire o continuare a fornire questo supporto in modo volontario”. Il passaggio che lascia gli osservatori più delusi è senza dubbio quello sui cosiddetti ‘loss and damage’, ovvero sui fondi ai Paesi più vulnerabili per far fronte ai cambiamenti del clima già “permanenti e irreversibili” e troppo intensi per “qualsiasi forma di adattamento”. La “vittoria enorme” di aver ottenuto un articolo specifico dedicato a questo tema viene infatti ridimensionata da un meccanismo che, secondo le Ong del Climate Action Network, non dà “garanzia di assistenza” ai più colpiti. A ciò si aggiunge la precisazione che questo articolo “non implica, nè contiene basi per alcuna responsabilità giuridica o compensazione”, punto imprescindibile per gli Stati Uniti, che hanno voluto evitare che si possa usare l’intesa come base per impostare cause contro le aziende più inquinanti.