Nell’anno 1900 le città che in tutto il mondo superavano 1.000.000 di abitanti erano 6, nel 1950 salirono a 83, nel 2007 se ne contavano già 468. Bisogna invece attendere il 1950 per vedere la prima megalopoli, ossia una conurbazione con popolazione superiore a 10.000.000 di abitanti (New York City).
Nel 1975 alla città nordamericana si aggiungono Londra e Tokyo, nel 1985 si arriva a 9 megalopoli in tutto il mondo e nel 2011 a 26; secondo stime ONU del 2011 nel 2025 si sarebbe arrivati a 30 conurbazioni, nel 2022 invece siamo arrivati a 33 e oggi si è già sicuri che a fine decennio (2030) saranno 42. Ventisei delle attuali 33 conurbazioni mondiali si collocano nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) mentre le rimanenti 7 sono distribuite tra Nordamerica ed Europa.
Se indubbiamente il XX secolo è stato quello delle città – conseguenza dell’esplosione demografica che ha portato la popolazione mondiale da 1.650.000.000 abitanti nel 1900 agli attuali 7.900.000.000 – dal punto di vista urbanistico il XXI secolo sarà senza dubbio quello delle megalopoli, ossia complesse realtà policentriche di estensione regionale all’interno delle quali si gioca buona parte del futuro della stessa umanità.
Furono l’urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford e il geografo francese Jean Gottman tra i primi a studiare questi fenomeni che andavano delineandosi già dagli anni immediatamente precedenti la II GM quando in Nordamerica e in Europa si potevano individuare diversi centri urbani con circa 5 milioni di abitanti; questa tendenza riprese il suo percorso nel dopoguerra, addirittura in alcuni casi (Tokyo e Londra), avvantaggiandosi della ricostruzione. Mumford, studiando da vicino il fenomeno della grande conurbazione che dalla baricentrica New York andava formandosi da Boston sino a Washington passando per Newark, Philadelphia e Baltimora – area metropolitana conosciuta oggi dai sociologi statunitensi come BosWash – fu il primo a mettere in luce i problemi che in un futuro prossimo tale espansione incontrollata avrebbe portato, anche se affrontati per tempo. La sua è una visione pessimistica in cui lo studioso identifica proprio un punto di espansione massima della città tradizionale superato il quale la parabola di un proficuo sviluppo comincia inesorabile il suo percorso discendente. Le distanze sempre più grandi, i contrasti sempre più stridenti fra le varie fasce di popolazione, le difficoltà crescenti nel garantire i servizi essenziali – acqua, elettricità, mobilità – sono tutti fattori forieri di problemi pressoché insormontabili secondo il pensiero dell’urbanista americano. Effettivamente di fronte ai suoi occhi, tra anni ’50 e ‘60 andava dipanandosi una realtà – quella newyorkese – sempre più difficile da gestire, tra inquinamento, criminalità e traffico tanto che nel decennio successivo prolifereranno – su carta e su celluloide – le visioni distopiche di infernali realtà urbane ispirate proprio dalla Grande Mela.
Oggi, grazie ovviamente agli imponenti investimenti in infrastrutture ma soprattutto grazie allo sviluppo dell’informatica che consente di elaborare imponenti quantità di dati in brevissimo tempo, cosa inimmaginabile sino a pochi decenni fa, lo scenario è decisamente migliorato, particolarmente per le megalopoli del cosiddetto Primo Mondo. L’approccio per mezzo di sofisticati software nella gestione delle grandi realtà urbane ebbe inizio nei primi anni ’90. E’ di quel periodo la definizione di Global city della sociologa americana Saskya Sassen, secondo la quale andavano formandosi delle mega realtà urbane con connotazioni più comuni fra loro che col territorio circostante della nazione cui appartenevano. La studiosa identificò in New York, Londra e Tokyo le tre capostipiti di questo nuovo fenomeno, città in cui attraverso lavoro, cultura e sentiment comuni andava plasmandosi in quegli anni quella che poco più tardi tutti avremmo conosciuto come globalizzazione.
Oggi lo sviluppo di internet – il cui impatto, nei primi anni ’90, non era così prevedibile – ha consentito certamente da un lato il rafforzamento dei concetti espressi dalla Sassen con addirittura l’ingresso nel club delle Global city di altre realtà urbane anche di Paesi in via di sviluppo ma curiosamente dall’altro lato ha riconnesso le megalopoli ai loro territori di stretta appartenenza geografica uniformando il comune sentire fra le regioni più diverse del globo con l’aumento vertiginoso e incontrollato dello scambio di informazioni in tempo reale e accelerando così il fenomeno stesso della globalizzazione. Oggi il connubio fra pianificazione socio-urbana e utilizzo maturo di tecnologie informatiche è confluito nel concetto di Smart city, traducibile certo in città intelligente ma anche “facile, immediata, a misura d’uomo”. Ecco, soprattutto il concetto di città a misura d’uomo che poteva sembrare ancora un ossimoro sino a pochi decenni fa, grazie alla gestione dei servizi e delle infrastrutture urbane per mezzo di potenti software, si è oggi potuto fissare davvero come obiettivo perseguibile a livello globale.
Certamente a essere onesti sono ancora poche le megalopoli che possono già fregiarsi di questo accattivante aggettivo- smart city – e non si è troppo distanti dalla realtà se si è convinti che spesso siamo in presenza di poco più uno slogan politico, ma le moderne tecnologie, le A.I. e il web possono davvero, se ci si rimbocca le maniche, trasformare in meglio le nostre aree metropolitane, addirittura in qualcosa di inimmaginabile. Certo i problemi, le incognite e le sfide per il futuro, vista l’attuale tendenza dell’inurbamento quasi fuori controllo nei PVS, spesso ancora molto indietro sul piano infrastrutturale, rimangono impressionanti ma anche affascinanti. Si parla di aree metropolitane di 20-25-30 milioni di abitanti, con “corone” di slum di svariati milioni di individui spesso neppure censiti e privi di acqua e fonti di energia. In questo senso bisogna evitare che internet e l’informatica possano rivelarsi un’arma a doppio taglio per la presenza di aree grigie del dark web popolate da hacker, mafie e terroristi che trovano un habitat ideale nell’infinito sottobosco delle conurbazioni del III mondo. Non a caso il Pentagono dagli anni ’90 studia tutti gli scenari più catastrofici che possano portare anche ad interventi diretti sul campo all’interno di una megalopoli.
Mettendo però da parte gli scenari distopici e più serenamente guardandoci intorno vorremmo tentare di accompagnarvi in un viaggio che vi racconti le megalopoli più grandi e iconiche del pianeta, un viaggio spesso giovane di due secoli, a volte cominciato in riva al mare, fra villaggi fiabeschi e bucolici e finito fra la bruma notturna che circonda megaschermi al plasma sopra grattacieli rivestiti in titanio e visibili per decine di chilometri. Un viaggio per capire che c’è ancora spazio per seminare la speranza in fazzoletti di terra calpestati da 30 milioni di esseri umani.