Spetta al Ministero dell’Ambiente e non più alle Regioni il compito d’individuare, a integrazione di quanto già previsto dalle direttive comunitarie, le tipologie di materiale da non considerare come rifiuto, in quanto riciclabile, sulla base di una analisi caso per caso. C’è un precedente: nella fattispecie il caso ha riguardato un’impresa che era già stata autorizzata a una attività sperimentale per il trattamento e per il il recupero dei rifiuti costituiti da pannolini per bambini e da assorbenti igienici, per un periodo di due anni, alla quale la Giunta regionale Veneto ha poi respinto la richiesta di qualificare le attività svolte nel proprio impianto industriale, come attività di recupero “R3”, in quanto per questi materiali la normativa comunitaria, al momento, non lo prevede.
Il giudice di primo grado (Tar Veneto n.1422 del 2016) aveva accolto il ricorso dell’impresa e conseguentemente annullato il diniego, ritenendo che, in mancanza di espresse previsioni comunitarie, l’Amministrazione potesse valutare caso per caso. Il giudice di appello, nella sentenza n. 1129 del 2018, senza entrare nel merito tecnico della questione, ha tuttavia osservato, alle luce dell’art. 6 della direttiva 19 novembre 2008 n. 2008/98/Ce riguardante la “cessazione della qualifica di rifiuto”, che la disciplina dell’attribuzione a rifiuto o meno è riservata alla normativa comunitaria; che quest’ultima ha previsto che per gli Stati membri sia possibile valutare altri casi di possibile cessazione di specie; che la prerogativa compete di fatto allo Stato e precisamente al Ministero dell’Ambiente, che a tal fine deve provvedere con propri regolamenti.