L’esperienza italiana è stata il modello di riferimento della conferenza internazionale organizzata in Macedonia dalla missione Osce e dalla nostra Ambasciata. “Institutional reforms for fight against corruption, best practices towards European model – The Italian example” il titolo del convegno che si è tenuto nella capitale macedone il 22 febbraio. A spiegare i vari aspetti di cui si compone il modello italiano è stato il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Ad accompagnarlo, per l’occasione, il comandante del Nucleo speciale anticorruzione della Guardia di Finanza, generale Gaetano Scazzeri, il cui intervento si è soffermato sul raccordo operativo esistente con l’Anac e le tecniche investigative impiegate in Italia. Tutti elementi di grande utilità per una nazione, come la Repubblica balcanica, che ha da poco approvato un’apposita legge sulla prevenzione della corruzione e il conflitto di interessi.
La missione dell’Anac è stata anche l’occasione per una serie di incontri bilaterali ai più alti livelli col Primo ministro, Zoran Zaev, il ministro della Giustizia Renata, Deskoska, e il presidente della Commissione macedone per la prevenzione della corruzione, Biljana Ivanovska.
L’importanza di una prospettiva diversa, di tipo preventivo, è, quindi, un tema al centro, da anni, del dibattito mondiale in materia di lotta alla corruzione. Il primo criterio della strategia è connesso ad un capovolgimento della prospettiva tradizionale. L’esigenza di assicurare la legalità e la corretta cura degli interessi pubblici è un problema a cui i sistemi amministrativi hanno cercato di rispondere soprattutto con la logica del controllo, collegata all’idea di un’amministrazione di cui non ci si può fidare, perché un “luogo a rischio”, un’entità, quindi, da sottoporre ad una sorta di tutela. “L’impianto normativo della legge Severino scommette, invece, sulla capacità di ogni amministrazione di poter generare gli anticorpi, partendo da un assunto in astratto difficilmente contestabile – ha detto il presidente dell’Anac Cantone nel suo intervento lo scorso anno alla conferenza di Buenos Aires -. Non si può contrastare la corruzione, ponendosi contro l’amministrazione e non utilizzando la parte migliore di coloro che la compongono. Questo capovolgimento di prospettiva si traduce, in pratica, nell’innovativa previsione di uno strumento alternativo di controllo, attraverso la riorganizzazione delle procedure, quello dei piani di prevenzione della corruzione”.
I piani di prevenzione si ricollegano sia al sistema di compliance previsto nell’ambito della responsabilità “penale” delle imprese, introdotta in Italia dal d.lgs. n. 231 del 2001 che ai piani di integrità (“integrity plans”), introdotti in molti Paesi stranieri per verificare l’integrità dell’organizzazione e valutare il livello di vulnerabilità degli organismi, ma si muove comunque con una direttrice autonoma. Il Piano si articola su un doppio livello, un piano nazionale (Pna) ed uno di ogni singola amministrazione; entrambi hanno validità triennale ma devono essere annualmente aggiornati. Il piano nazionale deve essere redatto dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) sia pure dopo aver sentito altri organi (in particolare un comitato interministeriale e la conferenza unificata Stato Regioni) e nella pratica viene sempre predisposto con un confronto con i rappresentanti delle amministrazioni e previa consultazione pubblica. Con esso vengono fornite alle amministrazioni le indicazioni metodologiche per la redazione del proprio piano nonché individuate le possibili aree di rischio su cui intervenire e le misure adottabili.
È’ però con il piano triennale che viene messa in campo la specifica strategia di ogni ente. Tutte le amministrazioni sono tenute ad adottarlo e ad adeguarlo ogni anno, pena una sanzione pecuniaria amministrativa (da 1.000 a 10.000 euro) a carico dei soggetti obbligati alla sua predisposizione ed approvazione. I piani dovranno effettuare la cd. mappatura dei rischi e cioè l’individuazione dei fattori che possono agevolare i fatti di corruzione; quelli esterni, collegati a situazioni ambientali esterne all’ente (quali, ad esempio, l’esistenza di fenomeni di diffusa illegalità) e interni, ricollegati, in particolare, all’attività degli uffici (che si si occupano, ad esempio, di questioni di impatto significativo dal punto di vista economico).
Una volta individuati i rischi, vanno poi indicate le misure organizzative che possono sterilizzarli; a partire dalla rotazione del personale (misura obbligatoria), le altre misure saranno calibrate alle peculiarità dei rischi medesimi e possono consistere, ad esempio, in controlli aggiuntivi (il visto sulle pratiche o la istruttoria condotta da parte di più persone), nel destinare maggiori risorse di personale ad alcune attività, nel prevedere rigidi criteri cronologici nell’esame delle pratiche o anche nell’eliminare intralci burocratici che possano essi stessi essere fattori di rischio.