Un matrimonio, vero e in funzione anti spagnola e una leggenda, veicolata però dall’autorevole BBC dunque chissà.
Pare che il termine inglese tea per designare piantina e infuso da essa ricavato, nacque da un acronimo stampigliato su alcune casse presenti fra il voluminoso bagaglio della nobildonna portoghese Caterina di Braganza, giunta a Londra nel 1662 per sposare Carlo I Stuart e diventare così la nuova regina d’Inghilterra. La futura sovrana portava con sé da Lisbona un’erba essiccata originaria dell’oriente, il cha, che portoghesi e olandesi importavano in Europa da qualche decennio senza troppa fortuna visto il suo costo, e sulle quattro casse che la contenevano stava scritto Transporte Ervas Aromaticas, da cui, pare, nacque il lemma tea. Fino a quel momento la nuova bevanda non era comparsa che di rado a Londra, forse due volte e non prima del 1650, proveniente dalla vicina Olanda.
Fu Caterina a introdurne l’uso a corte e a farlo diventare di gran moda fra la nobiltà inglese. Questa regina di origini portoghesi nonostante l’angolo ombroso in cui è stata relegata dalla Storia – cattolica in terra anglicana, dopo una serie di infondate accuse di cospirazione venne salvata dal re suo marito che si schierò contro il Parlamento, alla scomparsa del sovrano rientrò di corsa nell’amata Lisbona dove morì senza lasciare eredi – è stata in realtà una figura decisiva per le vicende del futuro impero britannico e per la cultura dei suoi sudditi. E’ ormai acclarata l’idea che fu per merito suo che l’Inghilterra adottò progressivamente il tè come bevanda nazionale tanto da divenire, il suo consumo, un tipico rituale british riconosciuto in tutto il mondo.
Il caldo infuso di origine cinese secondo recenti studi socioeconomici ha fornito addirittura un decisivo contributo di natura demografica alla prima rivoluzione industriale di fine XVIII secolo; l’Inghilterra di metà ‘700 fu infatti la prima nazione al mondo a “incappare” in una vera e propria esplosione demografica che solo da poco ha trovato una valida spiegazione proprio nella diffusione del consumo del tè anche fra gli strati poveri della popolazione: la pratica di bollire l’acqua prima di bere l’infuso ridusse drasticamente le infezioni da dissenteria facendo aumentare esponenzialmente il numero degli abitanti, pronti a fornire le loro preziose braccia nelle nuove fabbriche a vapore di Manchester e Liverpool. Due anni dopo l’incoronazione di Caterina gli inglesi presero definitivamente possesso di Neue Amsterdam, ribattezzandola subito New York; in onore della regina fu chiamata Queens la nuova contea a est di Manhattan, una lunga lingua di terra sabbiosa e vagamente acquitrinosa che digradava sull’oceano, disabitata e buona solo per pescarvi i granchi. Ma soprattutto, questa giovane principessa portò in dote qualcosa che si rivelerà preziosissimo per le mire dei mercanti londinesi, fino a quel momento tenuti alla larga dal lontano oriente dai temibili olandesi e dagli stessi portoghesi: il libero accesso a tutti i porti lusitani in Brasile e India e il completo possesso di uno scalo sul Mare Arabico, costa nordoccidentale indiana.
Nonostante la conformazione accogliente, sette incantevoli isolotti a racchiudere un’ampia baia protetta – da cui, pare ma non è certo, il nome lusitano di Bom Bahia – per i fini e le rotte seguite dai mercanti portoghesi, proiettati verso l’Indonesia e le “isole delle spezie”, quel luogo risultava fuori mano ma per la Compagnia Britannica delle Indie Orientali che allora stentava a far concorrenza agli altri europei (gli inglesi erano stati cacciati via da olandesi e francesi dall’Oceano Indiano orientale solo pochi anni prima), in quel momento si rivelò il migliore dei porti possibili. Lo scalo venne affittato da re Carlo a 10 sterline annue e nel 1668 i primi vascelli provenienti da Londra entravano a Bom Bahia, avamposto di pochi abitanti con alle spalle un misterioso, inesplorato e ricchissimo continente. Prima dell’arrivo degli europei – portoghesi nel 1533 – nell’area dell’attuale Mumbai sorgevano alcuni villaggi di pescatori che popolavano il piccolo arcipelago di sette isole la cui particolare conformazione contribuiva a formare una baia protetta sulla costa. L’arcipelago, marginale nell’economia dei vari regni indiani e musulmani che si succedettero sino al XVI secolo tra Dehli e il cuore del subcontinente indiano, era chiamato Mumba da MumbaDevi la divinità indù protettrice del luogo.
Fu l’arrivo dei portoghesi a dar vita a un primo nucleo di riferimento con una piccola fortezza sull’isola di Bassein. I nuovi dominatori britannici non fecero altro che anglicizzare la toponomastica prendendo per buono il toponimo Bom Bahia e trasformandolo in Bombay. La Compagnia delle Indie possedeva già un avamposto a Surat, duecento km più a nord ma qui a Bombay trovò un sito vergine e defilato rispetto agli interessi dei potentati indiani, sempre in guerra fra loro. Già nel 1685 gli inglesi avevano unito cinque dei sette isolotti originari rafforzando così il porto e il nucleo primigenio portoghese che da 5.000 passò a contare oltre cinquantamila abitanti a testimonianza di quanto gli anglosassoni puntassero sul sito. L’impossibilità di navigare sulle coste orientali del subcontinente sino all’Indocina costrinse i britannici a stipulare accordi commerciali coi regni dell’interno e, attraverso un’astuta politica di guerre circoscritte e alleanze locali alla metà del secolo successivo riuscirono contro ogni pronostico a issarsi al ruolo di playmaker della politica e dell’economia dell’India del nord, sino ad affacciarsi da soli sulle rive dell’Oceano Indiano orientale, nella gigantesca regione del delta del Gange.
Lo sbocco privilegiato sul mare, per la sua sicurezza, al riparo dai legni olandesi e francesi, continua ad essere Bombay, da cui transitano come un fiume sempre più grosso spezie, tè, pietre preziose, tessuti, legname, avorio, armi, oppio, materiali da costruzione e uomini, di tutte le razze, di tutte le lingue, di tutte le fedi religiose, di tutti i ceti sociali. Il ruolo di Bombay in questa continua espansione della Compagnia – nel frattempo sempre più grande e articolata e dotata di un proprio esercito che a inizio XIX secolo raggiungerà i 200.000 effettivi – sarà sempre quello di porta di passaggio da e per la Madrepatria, con la fronte rivolta a ovest e la nuca verso il ricco interno dell’India che pian piano diventerà il cuore della grande Talassocrazia Britannica. Al 1765 – cento anni dopo l’arrivo degli inglesi – Bombay supera i centomila abitanti e nel 1845 raggiunge i 500.000. E’ una città multietnica e multiculturale, con i caffè e le sale da tè in stile londinese accanto ai suk in stile orientale e mediorientale.
Nel 1853 vi viene inaugurata la prima linea ferroviaria dell’intera India, tra il centro città e Thane, un comune periferico, opera che culminerà nel 1888 nell’edificazione di una grandiosa stazione ferroviaria in stile neogotico arricchito con innegabili ispirazioni artistiche indiane. L’opera, inaugurata nel 1897 e dedicata alla regina Vittoria, oggi è patrimonio Unesco e ha cambiato nome in Chhatrapati Shivaji. Nel 1861 Bombay approfitta della Guerra di Secessione Americana per diventare il primo polo mondiale per la produzione di tessuti in cotone e nel 1869 l’apertura del Canale di Suez rafforza e consolida il suo ruolo di primo scalo dell’Impero Britannico nell’Oceano Indiano. Il numero di abitanti sale ulteriormente sino a sfiorare il milione al volgere del secolo e a superarlo nel 1906. Si susseguono in questo periodo frequenti epidemie di colera, l’altra faccia della medaglia del grande fermento che anima la città. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale Bombay rappresenta il perfetto topos dell’epoca d’oro del colonialismo al pari di Shanghai, Il Cairo, Saigon, Algeri e altri caotici e ispirati crocevia dove le più assurde traiettorie di milioni di vite si intrecciano e si mescolano in maniera sorprendente e inaspettata come mai è accaduto prima nella storia del mondo e più di cent’anni prima dell’avvento di parole strane come globalizzazione o meltingpot. Il coronamento dell’impetuosa crescita della città è il Gateway of India, un grandioso portale monumentale che dal lungomare si affaccia sul Mare Arabico a rimarcare per Bombay il ruolo di Porta dell’India.
L’opera, iniziata nel 1911 all’arrivo di re Giorgio V in visita nell’Impero, venne inaugurata solo nel 1924 a causa delle urgenze belliche che la Madrepatria dovette affrontare sul suolo europeo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Bombay raggiunge i 2 milioni di abitanti e con l’indipendenza del 1947 viene travolta dalle tumultuose dinamiche economicodemografiche dell’intera nazione indiana che comunque continua a fare affidamento sul suo storico ruolo di playmaker commerciale in riva al Mare Arabico. In città confluiscono milioni di emigrati interni, la popolazione supera i dieci milioni di abitanti a metà anni ’80 (in soli trent’anni dunque) con le conseguenze sociali che tutti possono immaginare in un Paese già povero di suo. Il porto, l’edilizia e gli impieghi statali non possono bastare a sostentare tutta questa massa di persone e solo le liberalizzazioni economiche del 1991 forniscono nuova e inaspettata linfa a tutta l’area metropolitana. Oggi Bombay – che nel 1995 cambia nome in Mumbai in onore della divinità Mumbadevi – rappresenta decisamente il motore economico dell’India con il suo 10% dell’intero parco occupati dell’industria e il 40% dell’export del Paese.
Il terziario, anche quello avanzato, è cresciuto esponenzialmente trovandovi sede parecchie multinazionali indiane e straniere e la più grande industria cinematografica dell’Asia: Bollywood. Mumbai non è esente dai giganteschi problemi di disparità economica che affliggono l’India e in città – megalopoli che ormai ha raggiunto i 24 milioni di abitanti – convivono quartieri degni delle migliori zone delle metropoli occidentali accanto a slum costruiti in lamiera e privi delle più elementari reti infrastrutturali. Si calcola che almeno il 40% dei suoi abitanti viva o in baracche o in quartieri fatiscenti dove i servizi sono molto al di sotto degli standard minimi. Nella grande baraccopoli di Dharavi, collocata stranamente nel centro città, si stima abitino 1 milione di persone che vivono riciclando i rifiuti del resto della metropoli (scarti elettronici, cartone, plastiche, stoffe, lattonerie, scarpe eccetera) e curiosamente, dopo il successo del film The Millionaire del 2008, il quartiere è diventato un’ambita meta turistica arrivando negli ultimi anni a superare anche il famosissimo Taj Mahal come numero di visitatori. Tutto è caotico, contraddittorio, feroce e nauseabondo come solo sa esserlo una megalopoli sospesa tra primo e terzo mondo. Le soluzioni a volte si trovano o si prova a trovarle – la metropolitana sopraelevata (è difficile scavare sotto le baraccopoli), inaugurata nel 2014, quattro linee e altre cinque in costruzione – ma a queste latitudini forse i parametri sono altri e a Mumbai, cosmopolita e meretrice come poche megalopoli sanno esserlo, è sufficiente continuare a perpetuare il suo ruolo di Porta verso il Mondo. Che siate un indiano o un viandante straniero non importa, quella Porta è sempre aperta per chi sa cogliere questa ribollente poesia bella e maledetta.
Per gentile concessione del sito : giantcities.com