In caso di disservizi nell’erogazione dell’acqua potabile, anche se dovuti all’inquinamento prodotto da insediamenti industriali, il risarcimento dei danni patiti dai cittadini che rimangono ‘a secco’ lo deve pagare il gestore dell’acquedotto che si è impegnato alla somministrazione dell’acqua nel contratto di servizio e che deve ricorrere a fonti di approvvigionamento alternative rispetto a quelle usuali, dichiarate fuori legge, senza aspettare che chi ha inquinato appronti misure per affrontare l’emergenza. Lo stabilisce la Cassazione – sentenza 2182 della Prima sezione civile – affrontando un tema che tocca migliaia di cittadini che, in varie regioni, soprattutto in Sicilia, non possono contare su un flusso idrico costante e di buona qualità.
Con questo verdetto, la Cassazione ha confermato la condanna a carico della Eas, ‘Ente acquedotti siciliani in liquidazione’, ex gestore della reta idrica di Gela, a pagare 853 euro di risarcimento danni in favore del presidente della Confcommercio di Gela Rocco Pardo – uno dei paladini della battaglia contro l’Eas – per i disservizi patiti nel suo ristorante “nel periodo in cui il Comune di Gela aveva ordinato ai cittadini di astenersi dall’uso potabile dell’acqua in quanto i parametri chimici e i caratteri organolettici erano difformi da quelli previsti dalla legge”.
Senza successo, l’Eas ha contestato la sentenza con la quale il Tribunale di Gela, nel luglio del 2007, confermando la decisione emessa dal Giudice di pace nel settembre 2004, aveva condannato l’ente a risarcire Pardo. L’ex gestore dell’acquedotto ha sostenuto che la colpa del disservizio non era sua ma era derivata dall’attività del polo petrolchimico di Gela. I supremi giudici hanno replicato che la sentenza del tribunale è “meritevole di conferma per aver posto in evidenza, da un lato, l’estraneità della raffineria al contratto di somministrazione e, dall’altro, per aver correttamente richiamato il principio secondo cui, ai sensi dell’art. 1218 del codice civile, il debitore, in quanto tenuto a dimostrare di non aver potuto adempiere la prestazione dovuta per causa a lui non imputabile, non può limitarsi a eccepire la semplice difficoltà della prestazione dovuta o il fatto ostativo del terzo, ma deve provare di aver impiegato la necessaria diligenza per rimuovere gli ostacoli frapposti all’esatto adempimento”.
L’Eas ha insistito dicendo che la raffineria avrebbe dovuto “captare l’acqua marina e procedere alla sua dissalazione”, mentre all’ente spettava il compito “di miscelare l’acqua, una volta dissalata, in modo da renderla potabile”. All’obiezione i supremi giudici hanno obiettato che “non risulta che il contratto di somministrazione prevedesse esclusivamente la fornitura di acqua dissalata” ed inoltre l’Eas, hanno proseguito, non ha minimamente dimostrato di essersi adoperata in alcuna “attività doverosamente diligente per superare le difficoltà, così come non è stata neppure dedotta l’oggettiva impossibilità di ricorrere ad approvvigionamenti alternativi per eseguire le prestazioni dovute”.