Risanare il territorio, intaccato in diversi punti della Penisola da degrado e inquinamento di varia matrice, è da tempo un must che le autorità istituzionali del Paese, Governo in testa, ritengono prioritario. Al di là delle buone intenzioni, tuttavia, i fatti concreti non sono sempre conformi alle dichiarazioni d’intento. Lo conferma il presidente dell’Ispra (il centro studi del Ministero dell’Ambiente), Stefano Laporta, in audizione alla Commissione bicamerale ecomafie:
“Solo su un quarto dei 41 Siti di interesse nazionale italiani (Sin), cioè le aree inquinate più grandi e da bonificare, sono stati avviati o completati gli interventi di bonifica. Su due terzi di questi siti, è stato fatto soltanto lo studio preliminare (caratterizzazione)”. Secondo Laporta, “per il 66% delle aree sono stati fatti i piani di caratterizzazione. Per il 12% sono stati avviati gli interventi di bonifica e per il 15% il processo è stato concluso. Dunque, la situazione dei Sin non è brillante”.
Quale l’origine di questa situazione? Complesse e intrecciate le cause. In primo luogo, la frammentazione e i cambiamenti della proprietà dei terreni che rendono difficile risalire ai responsabili degli inquinamenti. In secondo luogo, una normativa farraginosa e contraddittoria, con sovrapposizioni di competenze. Fattori che combinati insieme ostacolano notevolmente l’azione di bonifica. I Sin sono presenti in tutte le regione italiane, tranne il Molise. Fra i più noti ricordiamo la Val Basento in Basilicata, Gela in Sicilia, Crotone in Calabria, Bagnoli in Campania, il fiume Sacco in Lazio, Porto Torres in Sardegna, Terni in Umbria, Porto Marghera in Veneto.