Un ipermercato del bricolage qualche giorno fa, settore giardinaggio. Vengo investito da un profumo familiare, intenso e mediterraneo e scorgo un piccolo elicriso che in vena di scherzi proustiani riporta la mia mente vent’anni addietro, su una scogliera del sudovest Sardegna. Una volta Beppe Severgnini definì la piccola penisola del Sinis – poco sopra Cabras – Finisterre d’Italia, cogliendone malinconiche vene di arcadica bellezza. Beh, a mio avviso la magia continua per molti chilometri a sud, attraverso le selvagge dune di Scivu e Piscinas, il borgo solitario di Buggerru, la lingua turchese di Cala Domestica e ancora più giù, tra le ormai silenti miniere di Iglesias, fra pianori spazzati dal sale e lecci piegati dal vento.
Era fine marzo e preparavo l’esame di restauro assieme a un collega. Studiavamo uno sconosciuto edificio industriale, in abbandono sulle scogliere poco sopra il paese di Gonnesa, la Laveria Lamarmora. In quei giorni precedenti la Pasqua portavamo avanti il rilievo della struttura, lavoro che avremo poi montato e completato con le diagnosi murarie al nostro ritorno a Firenze. Ogni mattina, arrampicandoci sui tornanti che staccavano a nord la grande spiaggia di Funtanamare, si arrivava alla frazione di Nebida e da lì, mollata la macchina, si aggirava un costone di roccia e si scendevano a piedi i 264 gradini letteralmente incastonati sulla montagna per arrivare all’imponente relitto di quel pezzo che – pare assurdo oggi – fu la Ruhr d’Italia. Se non ci siete mai stati, immaginatevi una grande terrazza panoramica e da qui un digradare di rocce ed arbusti per circa 150 metri fino al mare, con questo che là sotto urla e schiumaccia o scivola lento come uno strascico da sposa, a seconda dell’aria che tira da Gibilterra che sta proprio di fronte a voi, un po’ spostata sulla destra. A volte, preannunciata da folate d’un vento vorticoso, ci incoglieva la pioggia proprio a metà della scala in cemento grezzo, indifesi alle intemperie e carichi di carte, rollette metriche, aste e soprattutto macchine fotografiche; altre volte, col tempo più clemente, ci sedevamo sulla stessa maledetta rampa, birra e panino in mano, a rimirare l’immensa lastra giù in basso che borbottava strane storie lontane come tutti i mari del mondo e ci faceva sentire davvero piccoli. L’elicriso, quella piantuccia aromatica e forte che resiste a sole e salsedine delle estati mediterranee, era dappertutto, e il suo profumo orientale si abbarbicava come un potente ed arcano elisir persino sulle nostre menti. La laveria stava lì sotto, privata della copertura e con tutto quello spiegamento d’archi sui muri possenti che la facevano tanto somigliare ad un acquedotto romano. Me la ricordo oggi, assisa su quella scogliera come sentinella muta e solitaria, sferzata dai venti e dalla pioggia, ricotta dal sole e dal sale, a sorvegliare arcigna quell’arco di mare dall’isola di San Pietro al Pan di Zucchero, intrisa delle storie di quegli uomini e quelle donne che hanno lavorato nel suo ventre.
Venne inaugurata nel 1897, a picco sul mare, corredata anche da un piccolo molo da cui si caricavano le bilancelle, piccole imbarcazioni che portavano altrove il minerale vagliato. I capannoni industriali a quel tempo non erano anonimi scatoloni di cemento, al contrario si realizzavano ispirandosi alle grandi chiese romaniche, con finestroni ad arco, tetti a capanna su gigantesche capriate, contrafforti di spinta e persino qualche decorazione qua e là. Anche la Lamarmora non si sottrasse alla regola ed oggi il suo scheletro arancio in pietre e mattoni difficilmente lo accosteremo a quello cinereo d’una squallida fabbrica di periferia.
Eppure fabbrica lo è stata, e sino al 1930, quando venne superata da nuove tecniche di lavorazione del tout venant, il materiale grezzo appena rubato alla montagna. Accanto ad essa e per essa sorse il villaggio di Nebida che arrivò a contare fino a 3.000 abitanti (oggi saranno 100 famiglie), venne costruita una funicolare che trasportava le rocce dall’attuale terrazza alla stessa laveria e si arrivò ad impiegare quattrocento operai ed operaie, i primi per i lavori più pesanti e le seconde addette alla cernita del minerale.
La splendida Lamarmora racconta, per chi sa ascoltare, storie di un passato industriale o protoindustriale, come preferite; storie di uomini e donne strappati al medioevo dei campi e delle greggi e trascinati fino al ventesimo secolo, tra gioie e sofferenze d’un sapore nuovo, diverso, forse a comprendere meglio sé stessi e il mondo. E ancora, questa fissità, questi colori, queste solitudini, queste arcate tra le quali risuona il mare, raccontano di un’Italia con le mani sporche di grasso e fango e la tosse che sa di silicosi, delle fluide incognite del ventunesimo secolo, delle occasioni infrante e di quelle che forse verranno, chissà, di una valigia sempre pronta e del conforto di un caffè caldo da qualche parte, in una stazione straniera del nord… Questa è la Sardegna di mio nonno e di mio bisnonno, minatori di un Paese che non c’è più.