Immaginate d’essere un secchione. Un secchione che sgobba su pagine di Fisica per arrivare al suo onesto 6 e mezzo, che suda su limiti e funzioni per superare il compito di Matematica, che passa le nottate sull’Abbagnano per guadagnarsi una tranquilla sufficienza in Filosofia. Ma poi c’è lui, il genio della classe, che dico, dell’intera scuola! A costui basta leggere una volta sola le trenta pagine su Leopardi per far sbrodolare quella di Lettere, godersi l’ultimo Blockbuster Hollywoodiano in lingua originale per confermare il suo otto in Inglese, solo ascoltare la lezione sul Risorgimento per ripeterlo, pure ricco di particolari, una settimana dopo all’interrogazione di Storia. In qualunque altra classe sareste lì a giocarvi quantomeno l’accesso al podio, ma in questa dove state, lui oscura tutti.
Ecco, voi siete Prato, il vostro compagno genio è Firenze.
Prato, il gioiello che non ti aspetti, rimarchevole miscuglio di vernacolo e archeologia industriale, la capitale dì contado direbbero con malcelata alterigia i fiorentini, ecco, Prato, la (bella) terza città del centro Italia che se fosse in Provenza altro che Aix ma sta a soli 15 chilometri da Firenze. Firenze, così potente e ricca nel cuor del medioevo da potersela direttamente comprare, l’operosa Prato, nel 1351, con 17.500 fiorini dalla dinastia dei D’Angiò di Napoli, cui i pratesi si erano appunto legati da poco meno di trent’anni proprio per farsi proteggere da un corteggiamento un po’ troppo asfissiante dei fiorentini. Quale occasione migliore per questi ultimi? Conquistare l’industriosa cittadina senza colpo ferire, senza arrecar danno al prezioso apparato produttivo, solo versando nelle casse di quei rozzi francesi, assisi per caso sul trono di Napoli da meno di un secolo, pochi sacchi del dollaro dell’epoca: il fiorino. Finirono in questo modo prematuro i sogni di gloria di Prato, che da quel momento legò indissolubilmente la propria storia a quella dell’ingombrante vicina, che si limitò ad incoraggiarne la vocazione nel ramo tessile, tenendola comunque ben inchiodata al suo rango di città vassalla.
Si dice che qui l’arte della tessitura si sia affermata grazie ai numerosi mulini ad acqua facilmente installabili sul corso impetuoso del Bisenzio, che, appena sbucato dagli Appennini, incontra subito la città, per poi andarsi placidamente a riversare nella piana in cui scorre l’Arno. E il tessile è stato in certo modo lo stigma di questa comunità, tradizione ed arca su cui ha navigato dall’Alto Medioevo sino al terzo millennio, con l’avvento del dominio cinese. Di ricchezza ce n’è stata – lo testimoniano la grazia del Duomo, gli affreschi di Filippino Lippi, un capolavoro assoluto del Rinascimento come Santa Maria della Carceri di Giuliano da Sangallo, l’arcigna imponenza del Palazzo Pretorio, i numerosi conventi, le pittoresche mura, ancora in piedi in molti tratti, i candidi bastioni del Castello di Federico II – e forse ce ne sarebbe potuta essere di più.
Ma aleggia un odore da dietro le quinte a Prato, la sensazione di esser stata una delle tante macchine mirabili che, lavorando nell’ombra, hanno permesso a Firenze, nella notte dei tempi, di lanciare la sua sfida al mondo fino a divenire l’indiscussa capitale dell’economia e dell’arte occidentale al culmine del Rinascimento.
Alla vigilia dell’Unità d’Italia le tecniche e le lavorazioni che gravitano attorno ai telai, con l’invenzione della “rigenerazione degli stracci” provenienti da varie parti del mondo, sono così avanzate da far guadagnare alla cittadina il soprannome di Manchester di Toscana. Ai primi del ‘900 gli stabilimenti piccoli e grandi, dentro e fuori le mura, si moltiplicano sino a caratterizzarne lo skyline, con nette ciminiere in mattoni rossi che si stagliano verso il cielo d’Appennino in totale spregio e dominio di antichi campanili e torri medievali. La strada è tracciata, la storia è segnata, il futuro è scritto. In 20/30 mila vi giungono dal meridione nel dopoguerra, numeri proporzionalmente più grandi di quelli di Milano e Torino. La grazia dei vicoli, dei vecchi opifici, delle piazzette, dei corsi d’acqua viene oscurata da un baldanzoso progresso che cola e si espande verso la piana a sud, grigio del cemento e rosso delle tinture. Ricordo le parole di un amico, qualche anno fa: “Noi si piglia pe grulli i cinesi, ma ci siam scordati che una volta i cinesi eravam noi. Quand’ero bambino, negli anni ’60, in tutte le case c’era un telaio, e giorno e notte ‘un si sentiva altro che quel rumore lì, secco e ritmato. I soldi sì, li si son fatti, ma eravam schiavi, come i cinesi oggi.”
E’ il Fabbricone, già dal 1974, ad anticipare le tendenze che verranno. Una gigantesca fabbrica ottocentesca in disuso riattata a teatro con le prime sperimentali performances di Luca Ronconi quando ancora il lavoro tirava eccome. La scoperta della Bellezza arriverà vent’anni dopo, quando la crisi costringe a guardarsi dentro, a ripensarsi, a leccarsi le ferite. Oggi Prato si trova in dote la poesia ruvida ma vera dell’archeologia industriale, rosa nata dal deserto della deindustrializzazione. Ai capolavori storici, riscoperti, ripuliti, restaurati, si affiancano le cattedrali del lavoro sette-otto e novecentesco, mute, stanche, silenziose testimoni della fatica, del capitale, della lotta, della passione. Se vogliamo, del genio, stavolta odoroso di grasso e fuliggine, non di sola carta ed inchiostro. E’ d’un cool post-industrial Prato, alle soglie di questo millennio che del post-industrial ha facendo religione.
Chè se a Firenze stanno i fiorentini, a Prato stanno i toscani, quelli veri, sanguigni e schietti, dì contado appunto. Come i Nuti, i Benigni, i Nesi, i Veronesi, i Malaparte, gente che sa che l’arte in fondo è solo uno “straccio” della Vita.