Il 24 ottobre di cento anni fa il villaggio di Caporetto, oggi in territorio sloveno, segnava la rotta dell’esercito italiano. I comandi austro-tedeschi sferravano l’attacco sul fronte italiano dislocando massicciamente le truppe che dalla Russia, in preda alla rivoluzione bolscevica, potevano rifluire verso occidente. Nella circostanza, per la prima volta, fu usato dai nemici l’arma letale del gas. Dalla catastrofe, tuttavia, l’Italia seppe riprendersi: non fu la perdita della Patria, ma la sua rinascita. Esercito e popolo, in uno spirito di concordia fino ad allora sconosciuto, seppero trasformare la sconfitta di Caporetto in una vittoriosa conclusione della guerra.
Gli storici hanno versato molto inchiostro nella ricostruzione delle responsabilità. Sì è messo l’accento più sugli errori militari e meno sulla demoralizzazione di un esercito lasciato solo a combattere, senza un tessuto di solidarietà – lo stesso che invece si costituì dopo il 24 ottobre del 1917 – in grado di rendere “italiana” l’impresa di generali, ufficiali e semplici soldati. Bisogna svolgere una riflessione pacata. La guerra vista da lontano, con il cuore e la mente di noi europei pacifici e pacifisti, temprati dalla tragedia di due immani conflitti mondiali, con milioni e milioni di morti, non deve offuscare l’analisi del passato per trarre conclusioni incongrue, sempre sul filo dell’ossessione revisionista.
L’idea, ad esempio, di cancellare dalle piazze i nomi ritenuti ingombranti dei responsabili militari della Grande Guerra non dovrebbe circolare con tanta facilità. Ferdinando Camon, a riguardo, torna sulla proposta (v. l’intervento su “Avvenire” di domenica scorsa) di togliere le targhe che tante città hanno affisso in ricordo del generale Luigi Cadorna. Dunque, ancora una volta la toponomastica assolverebbe alla funzione di tribunale della storia. Con quale costrutto e con quale esito, pare difficile stabilirlo con serena coscienza. A Camon, nel rispetto per il suo valore di scrittore, occorre replicare usando più che mai le parole della ragione. Se i Sindaci si facessero promotori del gioco infinito sulla possibile rimozione di una memoria iscritta sulle strade e le piazze d’Italia, avremmo un Paese in perenne febbricitazione per il ghiribizzo d’inseguire gli stati d’animo contro questa o quella personalità, un tempo elevata a pubblico e solenne riconoscimento. E chi si salverebbe? Neppure gli eroi del Risorgimento passerebbero indenni sotto le forche caudine di una critica spregiudicata, per non dire facilona. A fatica potremmo conservare le statue di Garibaldi.