Sapere di una Roma esente dal marchio di città in mano alla mafia, perché le infiltrazioni di tipo delinquenziale nei gangli dell’apparato capitolino e il condizionamento del consiglio comunale per la corruzione di alcuni non equivalgono a fenomeno mafioso, è di per sé una notizia che rende giustizia delle baraonde propagandistiche ai danni della Capitale.
Poco importa, in questo momento, se la linea della Procura di Roma sia uscita clamorosamente sconfitta o abbia solo registrato una parziale, seppur dura, correzione da parte dei giudici. Quel che conta è il valore di una sentenza chiusa a qualsiasi riconoscimento della connessione organica e sistematica tra l’organizzazione amministrativa della città e l’operato criminale della mafia. In questo caso si restituisce l’onore a un’intera comunità, quella romana, su cui gravava la penalizzazione dovuta a un giudizio ultimativo e devastante, assunto che nel mondo, per settimane e settimane, l’immagine della Città Eterna ha catturato l’interesse morboso dei media nei termini di una oscena rappresentazione a sfondo malavitoso. In questo ordito planetario di stupore e pregiudizio, Roma è diventata la nuova Babilonia.
Non è questo l’imprimatur da affibbiare alla Capitale. Tuttavia, come è lecito che avvenga, non mancano le voci di quanti rivendicano all’indomani del processo le ragioni della Procura. Anche il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha speso parole che confermano il sostegno alla bontà dell’impianto accusatorio: “Da cittadino romano e amante della mia città – ha detto – mi interessa che questa sentenza dimostri quanto Roma e la sua macchina amministrativa siano fragilissime e permeabili alla criminalità”. Dunque, a voler trarre profitto da questa affermazione, senza pretendere di piegarla nella direzione di polemiche ulteriori, ma con l’intento di farne tesoro ai fini di una nuova stagione della vita democratica della capitale, si tratta di capire come rendere la macchina amministrativa impermeabile alla criminalità. Questo dovrebbe essere il cuore di una seria discussione politica.
In questa cornice, le dichiarazioni dell’ex assessore della Giunta Marino, Alfonso Sabella, magistrato prestato alla politica, sono poco incoraggianti. “Tutto il lavoro fatto – spiega in una intervista al Corriere della Sera – è stato inutile, finito in uno scatolone e dimenticato. Eppure avevo fatto cose di buon senso, vedi la centrale unica di committenza. Niente, tutto lasciato cadere”. Sono rilievi molto gravi, perché vuol dire che nel corso di questi anni, mentre si svolgeva la preparazione del processo per “Mafia Capitale” e s’insediava a Palazzo Senatorio una nuova compagine amministrativa, per altro con il timbro di purezza nella lotta alla corruzione, gli interventi concepiti come antidoto alla mala gestione sono stati clamorosamente accantonati.
È corretto quel che dice Sabella? Un dubbio esiste, se non altro perché appare contestabile che la sua proposta di una Consip capitolina, dopo quello che è accaduto alla Consip vera e propria, avesse di per sé un carattere risolutivo dal punto di vista del buon funzionamento della macchina amministrativa. Tant’è che l’abbandono del progetto può trovare spiegazione nella sua stessa fragilità interna. Troppo spesso si ricorre a formule ritenute per errore congrue ed efficaci. La crisi si annida nella zona d’ombra di presunzioni e semplicismi, come se il rigore e l’efficienza degli apparati burocratici, così come emerge dalla domanda di modernizzazione (a tutti i livelli) del sistema Paese, si possano configurare alla stregua di riforme ad effetto, pronte all’uso e con immediato riscontro, ma purtroppo senza reale costrutto.
Vanno rivisti i parametri della discussione pubblica. Il processo finora etichettato con il marchio di “Mafia Capitale” andrà avanti ancora per molto tra ricorsi annunciati ai gradi successivi di giustizia. Qualcosa intanto si è rotto nel meccanismo di facile cattura della pubblica opinione, quando a prender forma è la logica della dismisura – più si fa scandalo e più si ha consenso – come arma di conquista del potere, quale che siano le conseguenze sulla tenuta psicologica e morale degli italiani. Vien voglia di credere che sulla scia di questo disincanto, oggi più che mai circonfuso dal senso di inevidenza di talune spettacolari conclusioni preventive, per le quali gli italiani sono condannati a convivere con la mafia e la prassi pervasiva del malaffare, insorga il desiderio di riportare in auge la serietà e la probità della politica, unico cemento di un assetto positivo della realtà civile e istituzionale. È necessario pensare, in conclusione, al possibile mutamento di scena che – si voglia o non si voglia – un processo sostanzialmente andato in fumo porta con sé.