Con la sentenza della Cassazione n. 14313 del 8 giugno 2017 di riconoscimento di risarcimento ad un tecnico sanitario di radiologia medica deceduto per “infarto acuto del miocardio-arresto cardiocircolatorio” nel 1998, conseguente “ad una notevole mole di lavoro” a carico della Asl di cui era dipendente, viene riproposto l’obbligo del datore di lavoro, di effettuare una attenta e compiuta valutazione dei fattori di rischio lavorativo per i propri dipendenti, indicando anche le azioni di prevenzione nei confronti del cd rischio residuo.
Si è trattato di uno dei pochissimi casi, se non l’unico, in cui è stato condannato un datore di Lavoro del comparto Sanità, “per non aver adottato le misure necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del dipendete” riconoscendo, altresì, alla PA la responsabilità di “scelte organizzative che, per far fronte alla necessità di smaltire una notevole mole di lavoro ed assicurare la regolarità del servizio per gli utenti, hanno imposto condizioni di superlavoro eccedenti i limiti contrattuali e legali”.
Nella sentenza viene precisato che a carico “di soli quattro tecnici di radiologia è stata registrata in 4 anni una mole di 148.513 esami corrispondenti ad una media di 18.564 esami annui”. Si tenga presente che all’epoca vigeva il d.lgs. 626/1994, nelle cui linee guida approvate il 16 luglio 1996 dal Coordinamento delle Regioni e Province Autonome, si prevedevano all’allegato 1 (Orientamenti Cee riguardo alla valutazione dei rischi sul lavoro) al punto che indicava i fattori psicologici e all’organizzazione del lavoro, una valutazione, tra l’altro, sulle difficoltà di lavoro: intensità, monotonia, sui fattori condizionati dai processi di lavoro (lavoro in continuo, sistemi di turni, lavoro notturno) e sul lavoro molto esigente a scarso controllo.
Da considerare poi, alla luce del d.lgs.81/2008, dove all’articolo 28 è resa obbligatoria la valutazione dello Stress Lavoro Correlato, che in Medicina del Lavoro i turni di lavoro non sono solo causa di stress per i dipendenti, ma compromettono anche le loro capacità mentali ed organiche.
Ad affermarlo è un recente studio compiuto in Francia e condotto dall’università di Tolosa che ha comparato le attività celebrali di soggetti che lavoravano cambiando i turni e lavoratori che, al contrario, seguivano un regolare orario di ufficio. I risultati hanno evidenziato come i primi avessero una memoria significativamente peggiore rispetto agli altri. Per arrivare ai risultati, i ricercatori francesi hanno analizzato un campione di 1.200 partecipanti per un periodo di 15 anni. Ogni 5 anni (nel 1996, nel 2001 e nel 2006) valutavano le capacità cognitive dei lavoratori che turnavano tra mattina, pomeriggio e notte.
Il perché il lavoro a turni abbia questo impatto sul cervello è ancora sotto studio, tuttavia gli scienziati hanno ipotizzato che la cosa possa essere legata ad uno sconvolgimento del proprio orologio interno. Il corpo, continuamente costretto ad adattarsi a nuovi ritmi e abitudini, non riesce a trovare un suo equilibrio e una sua stabilità. Si generano di conseguenza disturbi del sonno che portano le persone ad essere sempre più stressate e non in grado di recuperare l’energia utile ad affrontare la giornata.
Se poi il turno di lavoro è di notte a impoverire ulteriormente la capacità mentale interviene la ridotta esposizione ai raggi solari e dunque la conseguente carenza di vitamina D prodotta dal nostro corpo. Un rischio che in realtà non riguarda solo i dipendenti “notturni”, ma anche tutti coloro i quali non hanno la fortuna di lavorare all’aria aperta e sono costretti in un ambulatorio sanitario di diagnostica o in ufficio per tutta la giornata.
I raggi solari che filtrano a stento dalle finestre non sono infatti sufficienti a produrre il fabbisogno quotidiano di vitamina D. Il deficit cognitivo potrebbe avere importanti conseguenze di sicurezza non solo per le persone interessate, ma anche per la società nel suo complesso, visto il numero crescente di posti di lavoro in situazioni ad alto rischio.
Importante dunque è non sottovalutare i pericoli di questa carenza cognitiva: un soggetto stressato potrebbe diventare una minaccia, perché non in grado di lavorare con lucidità ed efficienza. Il Niosh definisce lo stress in ambito lavorativo come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifestano quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigente del lavoratore.
Le conseguenze di tale situazione a medio e lungo termine comportano oltre alla compromissione della qualità di relazioni coniugali, della cura dei figli e delle relazioni amicali, l’insorgenza di patologie fisiche, al primo posto quella cardiovascolare.
Domenico Della Porta
Referente Medicina e Sicurezza del Lavoro Federsanità ANCI
Presidente Osservatorio sulle Malattie Occupazionali e Ambientali Università di Salerno