Il passato, abbiamo sempre affermato, riveste una forte importanza per il presente e cercare di dimenticarlo non è un buon viatico per affrontare le sfide di oggi.
Noi europei lo sappiamo per esperienza.
Quando sentiamo parlare di muri, ci viene immediatamente alla mente una data: il 9 novembre del 1989, giorno della prima breccia nel muro di Berlino.
Ci ritornano in mente le parole di Kennedy quando, il 26 luglio del 1963 in Germania, dichiarò: “Sebbene il muro rappresenti la più ovvia e lampante dimostrazione degli insuccessi del sistema comunista dinanzi agli occhi del mondo intero, non ne possiamo trarre soddisfazione. Esso rappresenta infatti, come ha detto il vostro sindaco, un’offesa non solo alla storia, ma un’offesa all’umanità, perché divide le famiglie, divide i mariti dalle mogli e i fratelli dalle sorelle, e divide gli uni dagli altri i cittadini che vorrebbero vivere insieme”.
E sempre in tema di muri, noi europei non possiamo dimenticare la vergogna delle Peace Lines, 15 km in tutto, sia a Belfast che a Derry, con l’unico scopo di separare i cattolici dai protestanti.
Costruiti a partire dal 1969, quando le difficoltà economiche , l’ingiustizia sociale, il reciproco sospetto e l’incomprensione, i c.d. Troubles, portarono ad un tale odio reciproco da non volere certo assistere oggi ad una replica.
Ma la storia degli Stati Uniti e del Messico non inizia certo oggi. Sicuramente Trump, che può essere considerato in tanti modi, non è certo l’inventore del muro.
La sua costruzione ha avuto inizio nel 1994, durante la presidenza Clinton, secondo l’ottica di un triplice progetto antimmigrazione: il progetto Gatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas ed il progetto Safeguard in Arizona.
Il muro, voluto da Bill Clinton, attualmente si sviluppa lungo 930 km non consecutivi, intervallati da confini naturali, filo spinato e zone dove sono presenti solamente recinzioni blande e sensori elettrici.
Venne rafforzato durante la presidenza Bush nel 2006, con una votazione ormai storica, durante la quale, il 29 settembre 2006, il Senato approvò, con 80 voti a favore e 19 contrari, la linea del Presidente. Hillary Clinton e Barack Obama votarono a favore.
Oggi, come sembra , Trump vorrebbe ancora una volta incrementare la sua lunghezza, chiudendo del tutto il confine.
Un progetto che dovrebbe costare intorno ai 12 miliardi. Anche se il vero problema non sarà la sua realizzazione, ma le sue implicazioni.
La scrittrice Gloria Anzaldua, nel suo libro semi-autobiografico Borderlands, racconta: “La frontiera Stati Uniti-Messico è una ferita aperta dove il Terzo Mondo viene a scontrarsi con il primo e sanguina. E prima che si cicatrizzi, sanguina di nuovo, il sangue vitale di due mondi si mescola per formare un terzo paese – una cultura di frontiera. I confini sono creati per definire i luoghi sicuri e quelli insicuri, per distinguere noi da loro. La frontiera è una linea di divisione, una striscia sottile lungo una ripida scarpata. Una terra di frontiera è un luogo vago e indeterminato creato dal residuo emotivo di una barriera innaturale”.
Perché un muro non è fatto solo di cemento, ma alimenta l’odio verso i diversi, verso quelli che appartengono all’altra comunità, delimita le azioni, costringe a scegliere.
Ecco perché gli Stati Uniti dovrebbero ricordare le parole del proprio Presidente a Berlino e cercare una strada diplomatica, anche in virtù dell’internazionalismo, da sempre prioritario nella politica americana, da Reagan fino ad Obama, passando per Bush e Clinton.
Trump non sembra però intenzionato a percorrere questa strada, poiché “Lo stato-nazione rimane il vero fondamento della felicità e dell’armonia. Sono scettico nei confronti di consessi internazionali”.
Ma sono proprio quei consessi internazionali ad aver consentito agli Stati Uniti, attraverso la sua politica internazionale, di raggiungere quella grandezza mantenuta negli ultimi cinquant’anni.
Questo brusco cambio di rotta, rischia di sfociare, senza dialogo alcuno in conflitti etnici e religiosi.