I Batavi erano una tribù di stirpe germanica stanziata negli odierni Paesi Bassi, proprio – secondo il De bello gallico di Cesare – nell’area della foce del Reno. Non dovettero essere molti, circa 40.000 a giudicare dalle fonti, ma dovevano essere proprio abili in battaglia se i Romani, oltre a esentarli dalle tasse, li cooptarono come ausiliari nelle loro legioni, utilizzandoli in particolare per la difesa del limes al di qua del Reno. In epoca bassomedievale in Olanda si convinsero di essere diretti discendenti di quell’antica stirpe guerriera, ormai diluitasi nelle varie lingue di sangue che si incrociarono e mescolarono sui fiumi d’Europa dopo la caduta dell’Impero. E chissà che avrebbero pensato i Batavi stessi se avessero saputo che mille anni dopo la loro scomparsa i loro “discendenti” olandesi gli avrebbero dedicato un piccolo forte sulla foce di un oscuro fiume tropicale, al di fuori di ogni possibile cosmogonia potessero mai concepire, su un’isola chiamata “Jawa”. Quando gli esploratori della Compagnia Olandese delle Indie Orientali giunsero alla foce del fiume Ciliwung, che sfocia sulla costa nord dell’isola di Giava, vi trovarono già una cittadina portuale, Jayakarta (“vittoriosa e prosperosa”) innestatasi su un insediamento ancora più antico chiamato Sunda Kelapa (“Noce di cocco delle Sonda”).
Non erano infrequenti, dalla penisola indocinese al Borneo passando per Sumatra e Giava, guerre e scaramucce fra i vari regni che si spartivano quei lidi e l’arrivo dei musulmani attorno al 1200 e dei portoghesi all’alba del XVI secolo non aveva contribuito a rasserenare gli animi. I lusitani avevano già stretto accordi con un re indù locale per fondare un proprio avamposto a Sunda Kelapa e il nuovo signore della città – che prima la rase al suolo poi la ricostruì ribatezzandola Jayakarta – confermò agli europei la concessione probabilmente perché questi lo avevano appoggiato nella sua guerra di conquista. Si sarà a questo punto già intuito che la Jayakarta citata sarebbe l’attuale capitale dell’Indonesia ma è interessante notare come anche il toponimo Sunda Kelapa è giunto sino a noi attraversando i secoli e oggi dà il nome al porto della metropoli. Tra il 1598 e il 1600 giungono a Jayakarta anche gli olandesi. A tutti facevano gola gli scali marittimi sulle foci dei fiumi poiché per il retroterra di questi Paesi tropicali – spesso costituito da impenetrabili foreste – un grande corso d’acqua costituiva una primaria via di comunicazione per procurare mercanzie di vario genere nelle zone più interne. In giro per il globo non sono poche le città sorte per questo motivo sulla foce di grandi fiumi con un poderoso retroterra culturale e mercantile.
Gli olandesi giunsero da queste parti soprattutto per il pepe, considerato molto pregiato quello indonesiano. L’atteggiamento iniziale con il signore del luogo fu umile e rispettoso e furono autorizzati anch’essi a costruirvi un proprio avamposto, Batavia appunto. Non trascorsero vent’anni che nel 1619 gli “orange” riuscirono con un colpo di mano a far fuori indigeni, portoghesi e inglesi e dal semplice fortilizio il toponimo Batavia tracimò sino a sostituire per intero quello che designava la città di Jayakarta. Il problema era che la baia su cui sorgeva Jayakarta, la foce del fiume Ciliwung, paludosa per chilometri, non era proprio adatta a costruirvi una città per come la si intende, ovvero con strade, mercati, luoghi di scambio e di incontro, spazi di rappresentanza e gestione del potere. Quello che trovarono portoghesi e olandesi era un agglomerato di palafitte e case semigalleggianti con qualche isolotto più grande su cui sorgevano edifici più solidi. Se dunque da un lato la baia poteva ritenersi appetibile, con quel grosso fiume a far da via di comunicazione con l’interno, dall’altro piazzare proprio in mezzo a quella palude uno scalo per commerciare con l’Europa non era il massimo. Nella stagione dei monsoni non era infrequente vedere il mare incontrare i corsi d’acqua che scendevano dalla foresta inondando quegli isolotti semiabitati.
La fortuna (o sfortuna, poi vedremo) di Jayakarta fu che da quelle parti arrivò la stirpe di europei avvezza più di ogni altro a trattare con mare e terre basse. Ecco anche spiegato perché gli olandesi ebbero gioco facile nel cacciare portoghesi ed inglesi; è probabile che costoro non sarebbero mai riusciti a domare le bizze di quelle acque dolci, salmastre e salate e dunque credettero di lasciare una bella gatta ai cugini dei Paesi Bassi. La nuova città venne riorganizzata con poderosi argini e canali, i primi proteggevano l’abitato dalle inondazioni, i secondi irregimentavano le acque provenienti dai corsi d’acqua dell’interno. Batavia crebbe e si sviluppò nel XVII secolo come una strana realtà olandese a pochi chilometri dall’equatore con i suoi piccoli polder strappati al mare, i suoi canali su cui affacciavano edifici in mattoni rossi e tutti quei sistemi di drenaggio e controllo delle acque affinati sulle dure coste del Mare del Nord. L’area attorno al porto era animatissima dal viavai di velieri e chiatte e dal rosso delle barbe dei coloni che si mischiavano col nero dei javesi, col giallo di cinesi e filippini, col moro di portoghesi, indiani e yemeniti, tutti attratti lì dal portentoso odore delle spezie e delle ricchezze che queste potevano trascinarsi appresso. Batavia doveva apparire come una levantina città di frontiera con un’atmosfera a metà fra i racconti di Salgari e quelli di Conrad. Non doveva essere complicato per un figlio di buona donna di Rotterdam, Marsiglia, Manchester o Lisbona farsi una nuova vita in una delle tante piccole e grandi colonie sparse per l’indo-pacifico, come invece doveva essere complicato mandare avanti quell’unica che si aveva per parecchi indigeni del posto, costretti a subire le angherie dei coloni bianchi e dei mercanti arabi, cinesi e indiani.
Nonostante tutto la piccola Amsterdam tropicale prospera e si rinnova col passare degli anni sino a raggiungere i centomila abitanti alle soglie del XX secolo, allorquando si doterà della prima linea ferroviaria elettrificata di tutto l’Impero Olandese, Paesi Bassi compresi. Lo sfruttamento delle materie prime indonesiane – che non mancano – del resto si adegua e regge il passo della contemporanea crescita della domanda da parte della sempre più vorace industria occidentale e nipponica. Saranno curiosamente questi ultimi con l’occupazione del Paese tra il 1942 e il 1945 a ripristinare l’arcaico nome di Jayakarta – contratto in Jakarta – al posto di Batavia, in spregio ai colonialisti olandesi e per ingraziarsi la popolazione locale. Sin dalla metà degli anni ’20 anche qui infatti erano sorte le prime timide istanze autonomiste portate avanti dai personaggi più in vista della società indonesiana, quasi tutti della capitale e che avevano studiato a Parigi o nella stessa madrepatria olandese. Anche a Batavia – 500.000 abitanti alla vigilia dell’invasione giapponese – cominciavano ad avvertirsi tra i caffè e i circoli del centro quei refoli libertari che soffiavano in altre importanti città coloniali di tutto il mondo.
Dopo la cacciata dei nipponici gli olandesi cercarono di ripristinare lo status ante guerra ma ormai la Storia andava in tutt’altre direzioni e nel 1949 – dopo 4 anni di confronto anche armato con l’Impero coloniale – fu proclamata l’indipendenza indonesiana con capitale Jakarta. Da questo momento in poi la città, con l’istituzione delle amministrazioni governative, registra un’impennata travolgente dei suoi abitanti: 700.000 nel 1949, 1,5 milioni nel 1955, 2,7 milioni a metà anni ’60, 5 milioni ad inizio anni ’80 con la contemporanea dilatazione dei centri limitrofi. Oggi la megalopoli indonesiana conta 34 milioni di abitanti, include un territorio di circa 6.500 kmq contenente la capitale e altri cinque centri maggiori ad essa conurbati. Jakarta, in rapporto al resto dell’Indonesia, ha dato pian piano origine a un sistema macrocefalo che mostra oggi tutti i suoi limiti. Nella capitale, oltre agli uffici governativi e istituzionali, sono concentrate anche le maggiori società e multinazionali presenti nel Paese, qui viene generato il 53% del PIL indonesiano, non esiste un’altra realtà che riesca a bilanciare anche solo pallidamente lo strapotere di questa megalopoli. Questa ipertrofia è strettamente legata alle contraddizioni da cui è afflitto il Paese che ancora deve fare i conti con strascichi sociali da terzo mondo, un Paese che vede aree altamente sviluppate convivere accanto a zone quasi vergini oggi pericolosamente assediate da progetti di presunto sviluppo pubblico e privato.
Uno di questi prevede la costruzione di una nuova capitale dal nulla – proprio come Brasilia – sull’isola del Borneo, progetto che vorrebbe allentare la pressione demografica su Jakarta e al contempo distribuire lo sviluppo in maniera più equilibrata nel Paese; purtroppo l’edificazione di sana pianta di una città di almeno 3 milioni di abitanti non sarebbe operazione indolore in un territorio pressoché ricoperto totalmente da foreste pluviali. Ma è un fatto che Jakarta oggi appare soffocata, con un buon 20% dei propri quartieri ridotti a slums, baraccopoli sovraffollate in cui gli antichi canali e torrenti che scendevano dalle colline circostanti si sono trasformati in cloache che sversano tutto a mare. Si può immaginare cosa possa accadere durante la stagione dei monsoni, col mare che ingrossa e ricaccia all’indietro i liquami accolti sino a un minuto prima. Strettamente connesso al sovraffollamento è la congestione da traffico veicolare che causa un inquinamento tra i più elevati al mondo. Fortunatamente il governo sta investendo in mobilità sostenibile e nel 2019 è stata aperta la prima linea metropolitana, in collaborazione con aziende giapponesi, che avrebbe già fatto diminuire le emissioni di polveri sottili del 18% secondo studi della locale Università. L’ambizioso programma governativo prevede di raggiungere le 7 linee entro il 2030 portando la megalopoli a dei livelli più accettabili di sostenibilità urbana.
Ma il vero problema che deve affrontare oggi Jakarta è il lento sprofondare sotto il livello del mare a una incredibile media di 8-10 cm/anno. L’acqua pompata di continuo dalle falde sottostanti, la pressione di un imponente urbanizzazione fatta ormai di grattacieli su un territorio un tempo paludoso e sottratto all’oceano secoli fa – benedetti/maledetti olandesi che con la loro cocciutaggine tennero in vita Jayakarta – sta effettivamente dando origine a un importante fenomeno di subsidenza che il governo indonesiano ha deciso di affrontare con un piano fantascientifico: una barriera artificiale già in costruzione nella baia antistante la città che dovrebbe proteggerla dalle inondazioni dei monsoni e controllare il deflusso delle acque dei numerosi corsi d’acqua che scendono dalle sue spalle. Il “Giant Sea Wall Jakarta” o Great Garuda (dal nome del volatile simbolo dell’Indonesia) è progettato – manco a dirlo – da professionisti olandesi e, covid permettendo, dovrebbe essere completato tra il 2025 e il 2030, trasformandosi anche in pregiata area residenziale, un po’ come le isole artificiali di fronte Dubai. Le polemiche per l’impatto ambientale e per i costi esorbitanti non mancano ma per il governo indonesiano è una battaglia contro il tempo: decongestionare la megalopoli spostando la capitale amministrativa altrove e al contempo mettere in sicurezza e migliorare la città per come è diventata oggi o rischiare di farla diventare una sorta di Atlantide del XXI secolo, inghiottita dalle acque dello Stretto di Giava.