Alla fine del 2019, sul territorio nazionale sono 13.834 i servizi educativi per la prima infanzia con oltre 361 mila posti autorizzati (circa la metà nel settore pubblico). Nel 2021, un’indagine ad hoc evidenzia aumenti generalizzati sia dei costi di gestione delle strutture (85% dei casi), sia dei costi straordinari (88%). A fronte delle criticità riscontrate, il 55% dei gestori ha ricevuto contributi straordinari dal settore pubblico e circa il 62% ha attivato ammortizzatori sociali come la Cassa integrazione o il Fondo d’integrazione salariale.
Ampio lo scarto territoriale Nord-Sud e ancora lontano l’obiettivo europeo
Al 31 dicembre 2019 (prima dell’interruzione del normale andamento dell’anno educativo 2019/2020 dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19) sono attivi sul territorio nazionale 13.834 servizi per la prima infanzia, circa 500 in più rispetto all’anno precedente. I posti complessivi sono 361.318, di cui il 50% all’interno di strutture pubbliche, a titolarità dei comunii . L’offerta si compone principalmente di nidi d’infanzia (78,8%), ovvero gli asili nido istituiti nel 1971 (Legge 1044/71). I posti rimanenti sono in parte nelle sezioni primavera (12,6%), che accolgono bambini dai 24 ai 36 mesi e si collocano prevalentemente nelle scuole d’infanzia, in parte nei servizi integrativi per la prima infanzia (8,6%), che comprendono le tipologie degli spazi gioco, dei centri per bambini e genitori e dei servizi educativi in contesto domiciliare. In lieve incremento, dal 25,5% dell’anno educativo 2018/2019 al 26,9% del 2019/2020, la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti da 0 a 2 anni, sia per l’aumento dell’offerta complessiva e sia per la riduzione dei bambini sotto i tre anni (dovuta al calo delle nascite). Nonostante i segnali di miglioramento, l’offerta si conferma ancora sotto il parametro Ue pari al 33% di copertura dei posti rispetto ai bambini. Questo era il target da raggiungere entro il 2010, stabilito nel 2002 in sede di Consiglio europeo di Barcellona, a sostegno della conciliazione tra vita familiare e lavorativa e della maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Permangono ampi divari territoriali: sia il Nord-est che il Centro Italia consolidano la copertura sopra il target europeo (rispettivamente 34,5% e 35,3%); il Nord-ovest è sotto ma non lontano dall’obiettivo (31,4%) mentre il Sud (14,5 %) e le Isole (15,7%), pur in miglioramento, risultano ancora distanti dal target. A livello regionale i livelli di copertura più alti si registrano in Valle D’Aosta (43,9%), seguita da diverse regioni del Centro-nord, tutte sopra il target europeo. Dal 2019 anche il Lazio e il Friuli-Venezia Giulia superano il 33% (rispettivamente 34,3% e 33,7%). Sul versante opposto Campania e Calabria sono ancora sotto l’11%. I capoluoghi di provincia hanno raggiunto nel loro insieme una media del 34,8% di copertura. Tutti gli altri comuni si attestano in media a 23,7 posti per 100 residenti sotto i 3 anni. Tra i comuni centro delle aree metropolitane del Centro-nord, le città di Firenze, Bologna e Roma si collocano sopra il 45% di copertura, seguite a poca distanza da altre città metropolitane e, in netto distacco, da quelle del Sud e delle Isole, dove la copertura non raggiunge il 20% (a eccezione di Cagliari). Alcune aree metropolitane riescono a garantire un buon livello di copertura anche nei comuni periferici: è il caso di Bologna, Firenze, Milano e Genova. I comuni periferici dell’area metropolitana di Roma, invece, si differenziano notevolmente dal centro dell’area, con una copertura del 23,6%.
Nel Sud e nelle Isole la crescita maggiore di posti, ma resta il gap
Nonostante lo scarto dal Centro-nord, nel Sud e nelle Isole si registra l’incremento più significativo di posti nei servizi educativi, rispettivamente +4,9% e +9,1%, contro +1,5% nazionale. I posti aumentano principalmente nel settore privato (da 9.806 a 12.031) e nelle sezioni primavera (da 2.161 a 4.606). L’incremento nel Mezzogiorno è il risultato delle misure statali adottate nel corso degli anni a sostegno del riequilibrio dei divari territoriali. I servizi educativi per la prima infanzia sono tra i settori prioritari di intervento dei PAC (Piani di azione per la coesione) avviati dal 2012 dal Ministero per lo sviluppo e la coesione, d’intesa con la Commissione europea. Il successivo Piano di azione nazionale per il Sistema integrato di educazione e istruzione da 0 a 6 anni (D. lgs. 65/2017) ha stanziato ulteriori risorse a sostegno dei servizi per la prima infanzia, destinate soprattutto alle regioni del Mezzogiorno (a eccezione della Sardegna) sulla base di criteri di perequazione.
Stabili la spesa dei comuni e il numero di utenti dei servizi educativi pubblici
La spesa impegnata per i servizi educativi nel 2019 è pari a un miliardo e 496 milioni di euro, di cui il 18,7% è la quota rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie. La quota a carico dei comuni, pari a 1,2 miliardi di euro, sostanzialmente stabile nel 2019 a livello nazionale (+0,6%), è sostenuta soprattutto dall’andamento positivo del Sud Italia (+7,1%). Mentre la spesa dei comuni ha interrotto l’andamento crescente dopo la crisi economica, la spesa pro-capite (per ogni bambino residente di 0-2 anni) continua ad aumentare, soprattutto per effetto del calo demografico e, dunque, della contrazione della popolazione di riferimento: da 866 euro del 2018 a 906 euro del 2019. Sono circa 197.500 i bambini sotto i 3 anni iscritti nei servizi educativi comunali o convenzionati con i comuni nell’anno educativo 2019/2020 (il 14,7% del totale dei loro coetanei). Il 93,3% degli iscritti frequenta nidi e sezioni primavera, su cui confluisce il 96,7% della spesa dei comuni per i servizi educativi; il rimanente 6,7% degli iscritti frequenta i servizi integrativi per la prima infanzia, cui è destinato il 3,3% della spesa. I nidi comunali sono in parte gestiti direttamente, con personale assunto dai comuni, in parte affidati a soggetti terzi. Nel tempo si riduce il peso dei nidi a gestione diretta, dove i bambini iscritti diminuiscono (-4,1% nell’ultimo anno) mentre aumenta quello dei servizi affidati a terzi (+6,4%). Sono stabili gli utenti dei nidi privati in convenzione con i comuni e crescono i contributi erogati direttamente alle famiglie per la frequenza del nido (+12,7%). L’offerta tende dunque a orientarsi verso forme gestionali meno onerose per i comuni: in media, per un bambino iscritto, la spesa a carico passa da 8.645 euro nei nidi comunali a 1.813 euro nel caso di contributi pagati alle famiglie. Il Sud migliora ma si conferma il divario territoriale: la spesa pro-capite per bambino residente va da 149 euro l’anno in Calabria (il 3,1% dei bambini fruisce dell’offerta comunale), a 2.481 euro nella Provincia autonoma di Trento (i servizi comunali accolgono il 30,4% dei bambini sotto i 3 anni).
Sotto la media europea la frequenza del nido
Sulla base dell’indagine campionaria europea sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie, in Italia i bambini sotto i 3 anni che frequentano una qualsiasi struttura educativa sono il 26,3% nel 2019, valore inferiore alla media europea (35,3%)ii. In altri paesi del Mediterraneo si registrano nello stesso anno tassi di frequenza ben superiori (Spagna 57,4%, Francia 50,8%). Il dato si riferisce alla frequenza di qualsiasi servizio educativo, inclusi gli “anticipatari” alla scuola d’infanziaiii , che in Italia rappresentano il 5,1% dei bambini sotto i 3 anni. Al netto degli anticipatari e dei beneficiari dell’offerta comunale (14,7%), si stima intorno al 6,5% la quota di bambini iscritti nei nidi privati non finanziati dai comuni. Tra i fattori che influiscono sulle scelte delle famiglie vi sono i costi del servizio, soprattutto per l’accesso ai nidi privati, e la scarsa diffusione dei servizi, che penalizza soprattutto i residenti in alcune aree del Paese. I criteri di selezione delle domande da parte dei comuni per l’accesso ai nidi pubblici tendono inoltre a favorire le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, per sostenere la conciliazione degli impegni lavorativi e di cura. I servizi per la prima infanzia hanno però anche una funzione educativa e concorrono all’inclusione sociale e al riequilibrio delle distanze socio-economiche (come sancito dal Decreto legislativo n. 65 del 2017) e si configurano quindi come un diritto per i bambini, per cui occorre monitorare i divari di utilizzo e accessibilità in base alle condizioni socio-economiche delle famiglie di appartenenza. La condizione lavorativa della madre ha un peso determinante per l’accesso ai nidi: le famiglie in cui la madre lavora usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% delle famiglie in cui solo il padre lavora; tale differenza non si riscontra se si considera la condizione lavorativa del padre. Le famiglie in cui lavora un solo genitore possono avere difficoltà ad accedere ai nidi privati, per l’onerosità delle rette, e ai nidi pubblici per i criteri di accesso applicati dai comuni. Le famiglie con due redditi, invece, hanno maggiore probabilità di iscrivere i bambini al nido. Infatti, il reddito netto annuo equivalente iv delle famiglie con bambini che usufruiscono del nido è mediamente più alto (24.213 euro) di quello delle famiglie che non ne usufruiscono (17.706 euro)v e i tassi di frequenza aumentano all’aumentare della fascia di reddito delle famiglie (dal 19,3% del primo quinto di reddito si passa al 34,3% dell’ultimo quinto). Il titolo di studio dei genitori si conferma una discriminante della scelta del nido. Prendendo in considerazione il titolo di studio più alto in famiglia, il possesso di laurea o titolo più alto è associato al 33,4% di frequenza del nido, che scende al 18,9% per i genitori con al massimo il diploma superiore.
Diminuiscono gli “anticipatari” alla scuola d’infanzia
Nell’anno educativo 2019/2020, a differenza di quanto si rileva per i servizi dedicati ai bambini sotto i 3 anni (che nel 73,7% dei casi non frequentano alcuna struttura), nella scuola d’infanzia si registra il 90,5% di frequenza per i bambini tra i 3 e i 5 anni. Frequentano la scuola d’infanzia anche 68.324 bambini di 2 anni, iscritti come “anticipatari”vi, che sono il 14,6% dei residenti della stessa età, e il 5,1% dei bambini sotto i 3 anni. Una piccola parte degli anticipatari sono “irregolari” (0,7% dei bambini di 2 anni), perché compiono 3 anni dopo il 30 aprile dell’anno educativo di riferimento, limite previsto per l’accesso anticipato alla scuola d’infanzia. Il fenomeno appare inversamente correlato alla diffusione dell’offerta dei servizi specifici per la prima infanzia: in Emilia-Romagna e in Valle d’Aosta, dove la copertura dei posti rispetto ai bambini di 0-2 anni supera il 40%, gli anticipatari sono poco più del 2% di questa fascia di età; in Calabria si registra invece il 10,9% di copertura e il 9,9% di anticipatari. Nelle aree del Paese dove l’offerta di servizi è carente la domanda insoddisfatta sembra indirizzarsi verso un percorso educativo non appropriato alla delicata fascia di età dei bambini sotto i 3 anni. Inoltre, le scelte delle famiglie possono essere influenzate anche dalla gratuità della scuola d’infanzia, salvo la quota riferita alla mensa. Nel tempo gli anticipatari diminuiscono lievemente ma con andamento regolare: dal 15,7% dei bambini di 2 anni nel 2011 passano al 14,6% nel 2019. Nell’ultimo anno la riduzione riguarda soprattutto le regioni del Mezzogiorno, e può essere messa in collegamento con l’arricchimento dell’offerta di servizi educativi: infatti a 4mila posti in più nel Mezzogiorno corrispondono 1.736 anticipatari in meno. L’incremento dei posti disponibili e la recente introduzione di contributi statali, che alleggeriscono i costi sostenuti dalle famiglie per il nido, stanno contribuendo a indirizzare le scelte educative per i bambini di 2 anni verso servizi specifici per la loro età piuttosto che verso la scuola d’infanzia.
Forte l’impatto della pandemia sui servizi pubblici e privati
Da un’indagine realizzata nei mesi di aprile-maggio 2021viii su un campione di nidi e sezioni primavera pubblici e privati, emergono le criticità affrontate dai gestori dei servizi all’avvio dell’anno educativo 2020/2021. Fra i problemi più frequenti i servizi indicano: il timore delle famiglie (84%) e degli operatori (86%) per il rischio di contagio, le difficoltà organizzative nella gestione degli spazi (82%) e degli orari (68%), l’approvvigionamento dei prodotti per la sanificazione (70%) e le difficoltà delle famiglie a pagare le rette (60%) ix . Il 29% dei gestori del settore pubblico e il 45% di quelli del settore privato dichiarano un calo delle iscrizioni (con una plausibile contrazione delle entrate provenienti dalle rette). Si riscontra inoltre la necessità di affrontare costi straordinari (88% dei servizi) e l’aumento dei costi di gestione (85%), nella maggior parte dei casi consistenti o molto consistenti. Per garantire la riapertura dei servizi nel mese di settembre 2020 sono state adottate molteplici misure e riadattamenti organizzativi: rimodulazione degli spazi disponibili (93% dei servizi), formazione degli educatori (92%), orari scaglionati di ingresso e uscita (79%), attivazione di nuovi canali di contatto con le famiglie (72%), acquisto di nuovi materiali educativi (58%) e assunzione di nuovo personale (51%). Poche le strutture che hanno ridotto l’orario di apertura (27%), il 18% ha potuto acquisire spazi aggiuntivi, meno del 10% ha diminuito il numero di sezioni, ridotto il personale o eliminato il servizio mensa. Circa il 62% dei gestori ha dovuto attivare ammortizzatori sociali come la Cassa Integrazione o il Fondo d’Integrazione Salariale, il 29% ha rimodulato il sistema tariffario. Si riscontra complessivamente una notevole capacità di adattamento del sistema di offerta alla difficile situazione epidemiologica. La domanda del servizio da parte delle famiglie si è mantenuta relativamente alta, con oltre l’80% dei posti disponibili occupati sia a settembre 2020 che ad aprile 2021. A fronte delle difficoltà causate dalla pandemia, non tutti i servizi (55%) hanno ricevuto contributi straordinari da parte del settore pubblico (Stato, Regioni o comuni per i servizi privati) x . Nel Mezzogiorno la quota di nidi e sezioni primavera che hanno beneficiato dei contributi è del 46%, al Centro-nord sale al 57%. Una minore frequenza dei contributi straordinari si rileva anche nei servizi comunali (42%) rispetto a quelli privati (63%).
Fonte: ISTAT