Il livello di occupazione e la qualità del lavoro rappresentano da sempre indicatori delle condizioni economiche e sociali di un territorio. Criteri secondo i quali è possibile valutare la qualità della vita delle persone e delle comunità. Il 2019 ha fatto registrare il più alto tasso di occupazione dal 2005 nell’Unione europea, con il 73,1% di occupati tra 20 e 64 anni, rispetto al 66,8% del 2004. Anche in Italia l’occupazione è cresciuta negli anni, anche se in misura più limitata. Nel 2019 il Paese ha registrato infatti un tasso del 63,5%, contro il 61,4% del 2005. Dall’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat derivano le stime ufficiali degli occupati e delle persone in cerca di lavoro, nonché informazioni sui principali aggregati. I territori delle ex province di Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio di Calabria, Roma, Torino e Venezia sono confluiti dal 2015 nelle nuove città metropolitane. Questo non ha comportato cambiamenti nei confini territoriali, a eccezione della città metropolitana di Cagliari, istituita nel 2017, che comprende soltanto 17 Comuni della provincia originaria. La provincia di Bolzano detiene il tasso di occupazione più alto nel 2019 (74,1%), seguita da quella di Bologna (72,9), Belluno (71,5), Forlì-Cesena (71,4), Milano e Ravenna (entrambe 70,6%). Le province con l’indice più basso sono Crotone (35,8), Caltanissetta (38,1) e Napoli (38,8).
Come sappiamo, l’anno in corso è stato segnato dall’emergenza sanitaria, che ha inciso duramente sulle economie della maggior parte dei Paesi del mondo. Per tutelare i lavoratori, in Italia fino al 31 dicembre lo Stato ha imposto il divieto di licenziamento, sarà quindi nel 2021che si inizierà realmente a capire quanto la pandemia da Covid-19 abbia inciso sull’occupazione del nostro Paese, in Europa e nel resto del mondo. In Italia, le politiche per il lavoro sono materia di competenza di Stato e Regioni. Lo stabilisce l’articolo 117 della costituzione, che parla di concorrente per la “tutela e sicurezza del lavoro”, tuttavia, seppur mantenendo un ruolo minoritario, anche i Comuni possono contribuire allo sviluppo del lavoro e quindi alla crescita dell’occupazione.
In particolare, in base alla cosiddetta “legge Biagi”, gli enti locali possono esercitare un’attività d’intermediazione, iscrivendosi all’albo nazionale delle agenzie del lavoro che, secondo quanto stabilito dal “jobs act” nel 2015, può implicare la possibilità di svolgere attività di ricerca e selezione del personale, oltre che di supporto alla ricollocazione professionale. Sempre il jobs act prevede che i Comuni possano partecipare alla rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro. Inoltre, in alcuni casi le regioni delegano agli enti comunali funzioni di propria competenza in questo ambito. Le spese nei bilanci comunali a favore dell’occupazione riguardano principalmente tre settori: i servizi per lo sviluppo del mercato del lavoro, la formazione professionale e il sostegno all’occupazione. Queste voci comprendono, da un lato, le politiche attive di sostegno e di promozione dell’occupazione e dell’inserimento nel mercato del lavoro, dall’altro, quelle passive a tutela dal rischio di disoccupazione, come le spese a sostegno dei disoccupati (dall’erogazione di indennità, ad altre misure in favore del reddito), oltre che gli investimenti per la formazione e l’orientamento professionale, come l’attivazione di tirocini formativi. Sono incluse le attività di supporto al coordinamento delle politiche strumentali alla realizzazione di programmi comunitari. Interventi che rientrano, nella maggior parte dei casi, nell’ambito della politica regionale unitaria in materia di lavoro e di formazione professionale.
Fonte: Istat – elaborazione Openpolis