Leggendo la nota ufficiale del Governo italiano di questi giorni con la quale si comunica il pieno assorbimento delle risorse dei Fondi Ue 2007-2013, non si può che tirare un sospiro di sollievo e complimentarsi con quanti, in primis l’Agenzia per la Coesione, esempio tipico di amministrazione resiliente, in questi ultimi due anni hanno fortemente spinto per il recupero della capacità di spesa anche su quei programmi che, solo fino a due mesi fa, scontavano un ritardo abissale. Ad ottobre 2015 il target di spesa da certificare non era stato raggiunto non certo per bruscolini ma per 5,2 mld di euro: a contribuire maggiormente a tale gap compariva il POR FESR Sicilia (-1,1 mld €), il PON Reti (-704 mln €), il PON Ricerca (-695 mln €), il POR FESR Campania (-535 mln €) ed il POR FESR Calabria (-534 mln €). E poi? Miracolo a Milano. Così dopo oltre 8 anni di inutili polemiche, anni durante i quali migliaia di giornalisti, studiosi, esperti, politici di opposte fazioni, gufi, civette e fanfaroni puntavano l’indice sull’atavico ritardo delle istituzioni italiane, Ministeri e Regioni in particolare, nello spendere le risorse dell’Europa, oggi il Governo comunica che non solo sono state già assorbite il 93,5% delle risorse ma che per marzo 2017 si stima il pieno assorbimento con collocamento delle risorse tra il 98% e il 102%. Chapeau! Ce l’abbiamo fatta anche questa volta.
Eppure, tralasciando il monitoraggio finanziario dei programmi, un dubbio resta: perché a conclusione della più rilevante delle politiche pubbliche di respiro europeo sulla coesione e convergenza dei territori, politica che ha visto spendere circa 36 miliardi di euro, realizzare quasi 900 mila progetti, coinvolgere decine di migliaia di beneficiari, impegnare una pletora di professionisti pari – forse – solo alle forze armate, nessuno ne parla? Ma soprattutto, come è possibile che non si cavalchi un così grande successo?
Proviamo a dare una chiave di lettura leggermente diversa, ancora una volta non guardando alla performance del fondostrutturalismo, e al cinema che ci gira intorno, ma alla policy che dovrebbe ispirarlo. In particolare, soffermiamoci su due questioni alla base dei Trattati in materia di politica di coesione: la politica di coesione è la principale politica di investimento dell’Unione europea; con la politica di coesioni si punta a creare le condizioni per il riequilibrio di quei territori segnati da forti divari socio-economici.
Rispetto al primo punto, sebbene una correlazione diretta tra investimenti (e quindi crescita) e risorse Ue della coesione (risorse straordinarie aggiuntive) sia alquanto difficile da far emergere, statisticamente resta che, relativamente alla variazione del PIL in Italia tra il 2008 e il 2014, è proprio la componente investimenti ad aver maggiormente influito negativamente sulla sua dinamica. Questi, infatti, si sono ridotti di ben 92 miliardi di euro facendoci ritornare al livello del 2000. Di tale riduzione, circa 80 miliardi sono tutti riconducibili agli investimenti privati, mentre quelli pubblici si sono ridotti di circa 13 miliardi di euro ad un tasso del -26%.
Ovvero, se le variazioni del PIL hanno fatto registrare nell’intero periodo “solo” una caduta del -1,2% è perché a ridurre i danni sono state soprattutto le esportazioni nette (+3,8%) ed, in percentuale molto inferiore, una modesta tenuta dei consumi privati (+0,8%). In questo contesto aver iniettato 35,8 miliardi di euro di risorse pubbliche Ue sembra non abbia sortito alcun effetto o, a voler vedere la botte mezza piena, si sono attutiti gli impatti contingenti della crisi. A seconda della lettura che ci piace di più, una cosa è certa: in termini macroeconomici le risorse dei fondi strutturali non sembrano essere servite né a far convergere territori né a rafforzarne la competitività. Non a caso mentre nell’Ue a 28 nel periodo 2008-2013 il PIL è cresciuto nell’area convergenza mediamente del 7,2% e del 3,7% nell’area competitività, in Italia si è ridotto nell’area convergenza del -5,1% ed è cresciuto solo dello 0,6% nell’area competitività. Del resto si fa fatica a credere che con importi medi per progetti pari a 63mila euro (meno di 20mila euro per il FSE e circa 350mila euro per il FESR) si potesse in qualche modo influire sul livello di quegli investimenti che fanno riattivare il PIL. Nel caso delle imprese, nella migliore delle ipotesi, si è riusciti ad avere un po’ di ossigeno sul versante delle infrastrutture di base, del credito di imposta, qualche fondo di garanzia e di microcredito; nel caso del settore pubblico abbiamo assistito ad un latente effetto sostituzione finanza ordinaria con finanza straordinaria che ha per lo più mascherato il crollo degli investimenti pubblici. E allora ben venga la stima dell’Istat di un aumento dello 0,1% degli investimenti previsto per il 2015, ma purtroppo va altresì tenuto conto che dal 2008 al 2014 sono stati ben 172 i miliardi di investimenti italiani all’estero. Se è vero che le politiche di coesione avrebbero dovuto/potuto dare una mano a “trattenerne una parte” creando condizioni di attrattiva, ciò non sembra essere avvenuto.
Passiamo al secondo punto: riequilibrio di territori fortemente squilibrati. Qui gli interventi delle politiche di coesione avrebbero dovuto sostenere percorsi di riavvicinamento tra territori fortemente disomogenei, soprattutto relativamente a quelle “precondizioni” (beni, servizi e opportunità) alla base dei processi di crescita. È sempre difficile rintracciare, in particolare in un periodo breve, una palese causa-effetto tra spesa per una politica pubblica e risultati ottenuti ma, anche in questo caso, una banale sovrapposizione tra alcuni dei principali indicatori di squilibrio territoriale rilevati nel periodo 2007-2013 e l’idea che nello stesso periodo venivano impegnate ingenti quantità di risorse proprio in questa direzione su assi, misure obiettivi generali, obiettivi specifici, attività ecc. che avevano esattamente le stesse finalità, ci dovrebbe pure far apprendere qualcosa.
E invece? Invece, nonostante il grande sforzo della politica di coesione 2007-2013, probabilmente mai come negli ultimi 15 anni, le regioni convergenza sono state più lontane dalle regioni competitività e i loro abitanti più distanti in termini di pari diritti di cittadinanza. Una lontananza, leggendo alcuni indicatori sopra riportati, che diventa inquietante soprattutto quando ad arretrare sono anche le regioni competitività e ciononostante rimane un grande gap da colmare. Ma soprattutto guardando la nuova programmazione 2014-2020 viene subito da pensare che non abbiamo appreso quasi nulla, anche se tra 8/10 anni finiremo per assorbire interamente tutte le risorse disponibili. Del resto, ancora una volta la politica di coesione è stata delineata in una cornice di assoluta assenza di una strategia nazionale di sviluppo in cui la finanziarizzazione dell’economia e la regionalizzazione delle politiche di sviluppo hanno fatto il resto. Non che manchino, o siano mancati, grandi tavoli interistituzionali di concertazione, condivisione, raccordo e compagnia bella; questi ci sono e ci sono stati, forse anche troppo. Ciò che è mancata è innanzitutto una visione politica unitaria dei fondi strutturali. È mancata la forza e la capacità di anteporre un’idea paese di crescita a quella del gioco dell’oca in cui si rischia di rimanere fermi o addirittura di “ritornare al via”. Le economie di mercato, o se si preferisce capitaliste, sono condannate a crescere; una crescita apparentemente imperitura. Ci sono poche strade, delineate in letteratura macroeconomica e nel dibattito tecnico-scientifico, perché questa crescita – scongiurando lo spettro della deflazione che si intravede all’orizzonte – possa riprovare a mostrare i suoi effetti. O si mettono in campo misure finalizzate al recupero del potere di acquisto delle famiglie per rilanciare i consumi o si creano le condizioni per incentivare una consistente crescita degli investimenti, pubblici e privati, e quindi riattivare la domanda interna. Certo l’ideale sarebbe, compatibilmente con le reali risorse disponibili, seguire contemporanee entrambe le piste ma di sicuro il vero problema è far ripartire gli investimenti. Questo dovrebbe essere il mantra di qualsiasi intervento della nuova programmazione che certo continuerà ad essere di scarso impatto fino a quando non saremo capaci di guardare al di là del proprio naso; ovvero evitare finanziamenti di progetti o troppo piccoli per lasciare il segno o artificiosamente troppo complessi (pensiamo ai prossimi Investimenti Territoriali Integrati). Se c’è una lezione che avremmo dovuto apprendere da 25 anni di politiche di coesione è che la sete di protagonismo pubblico (assessorati, direzioni generali, tecnostrutture parapubbliche, società in house, partenariati istituzionali, ecc.), nell’arraffare una fetta della copiosa torta dei fondi strutturali ha fatto perdere di vista le finalità di una politica pubblica redistributiva trasformandola in una politica distributiva priva di qualsiasi efficacia sistemica.
E allora si comprende perché oggi questo successo del pieno assorbimento dei fondi Ue 2007-2013 appare essere figlio per lo più dei bravi tecnocrati del fondostrutturalismo. Il loro lavoro l’hanno fatto; l’Italia non perde risorse ma sembra aver girato a vuoto per circa 8 anni. Possiamo permetterci di perderne almeno altri 8?