L’ultima sentenza della Corte di Giustizia riapre l’infinita dialettica identitaria tra diritti e valori nell’età più complicata del vecchio continente. La pronuncia aggiunge, infatti, un tassello nel complicato mosaico delle relazioni inter-religiose e inter-culturali dell’Europa contemporanea. Da quando – a partire dall’11 settembre 2001 fino agli attentati terroristici degli ultimi due anni – il confronto con l’Islam è diventato scontro sui valori, sui principi e sulla tenuta identitaria del vecchio continente ogni storia (indipendentemente dall’epilogo) diventa una prova di forza.
La Corte di Giustizia europea, dunque, chiamata a pronunciarsi su due casi, avvenuti in Francia e in Belgio, entrambi riguardanti il diritto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro, ha stabilito che non costituisce una discriminazione diretta la norma interna di un’impresa che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso.
“Il divieto di indossare un velo islamico, se deriva da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”: lo ha stabilito la Corte di Giustizia Ue pronunciandosi su un caso di una donna musulmana licenziata in Francia per essersi rifiutata di togliere il velo al lavoro.
Amnesty International, insieme con la Rete Europea contro il Razzismo, ha già sottoposto alla Corte le proprie osservazioni secondo le quali entrambe le misure imposte dalla G4S Secure Solutions NV e dalla Micropole SA nei confronti dei loro dipendenti costituiscono discriminazione basata sulla religione o sul credo.
La sentenza, secondo il quotidiano ‘Avvenire’, riporta alla mente due casi riguardanti simboli cristiani indossati sul luogo di lavoro. Un caso riguarda una hostess britannica, di fede cristiana copta, licenziata per avere portato la croce insieme con la divisa del lavoro. Dopo 7 anni vinse il ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’altro caso fece discutere in Norvegia nel novembre del 2013: una nota giornalista aveva condotto il telegiornale indossando una piccola croce al collo, ma dopo le proteste di alcuni telespettatori islamici il direttore le aveva chiesto di toglierla.
La sentenza, in questa occasione, riguarda il caso di una donna musulmana, Samira Achbita, assunta nel 2003 come receptionist dall’impresa G4S in Belgio. All’epoca dell’assunzione, una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Nell’aprile 2006, la signora Achbita ha informato il datore di lavoro del fatto che intendeva indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro. La direzione le ha comunicato che non sarebbe stato tollerato, in quanto portare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi era contrario alla neutralità cui si atteneva l’impresa nei suoi contatti con i clienti. La signora ha insistito, e l’azienda ha modificato il regolamento interno per mettere nero su bianco “il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi”. Dopo il rifiuto di rispettare la norma, la signora Achbita è stata licenziata, e ha contestato tale licenziamento dinanzi ai giudici del Belgio, che a loro volta hanno chiamato in causa la Corte Ue.
Secondo la Corte, che ha valutato il caso alla luce della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, “la norma interna non implica una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”. Potrebbe tuttavia, sottolinea la Corte, rappresentare una discriminazione “indiretta”, qualora venga dimostrato che l’obbligo di abbigliamento neutrale comporta un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Ma anche in questo caso, la “discriminazione indiretta può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti”.