Perché scalare una montagna? Perché arrivare in vetta? Mi sono fatto molte volte questa domanda mentre il sudore, per raggiungere il rifugio più vicino mi avvolgeva, mentre sentivo i muscoli tirare sotto il peso della salita, mentre il fiato diminuiva ad ogni passo.
Per ciascuno di noi la risposta è diversa. C’è chi ama mettersi alla prova, c’è chi pensa alla pochezza dell’uomo mentre contempla i panorami che gli si aprono davanti, c’è chi come George Mallory, grande alpinista che morì nell’impresa di scalare per primo l’Everest, disse che l’ascesa verso la cima si esegue solo perché la montagna è lì.
Insomma un panorama variegato di motivazioni, che hanno sempre spinto molti di noi ad inerpicarsi sino alla cima.
Uno dei più popolari alpinisti italiani, denominato il re del Brenta, Bruno Detassis, ci ha suggerito che l’alpinismo è salire per la via più facile alla vetta, tutto il resto è acrobazia.
E se lo dice uno dei primi italiani che rese questo sport particolarmente celebre negli anni 30 dello scorso secolo c’è da crederci.
Ma non è l’unico, in quegli stessi anni inizia l’avventura di un altro grande alpinista.
Un giovane che verrà forgiato dalle difficoltà della vita. Nato da famiglia povera e orfano di padre a 4 anni, Riccardo Cassin si innamora ben presto della montagna.
Probabilmente la lista delle sue prime ascensioni non ha eguali, avendo risolto, grazie alla sua tenacia e decisione, i maggiori problemi alpinistici dell’epoca, sia sulle Dolomiti che sulle Alpi Occidentali.
Probabilmente la sua impresa più importante, e pietra miliare dell’alpinismo, avviene tra il 4 e il 6 agosto 1938 sul massiccio del Monte Bianco.
Qui compie la prima salita dello sperone Walker della parete nord delle Grandes Jorasses.
Salita sensazionale perché si trattava della prima volta che l’alpinista si recava sul Monte Bianco e non aveva mai visto la parete se non su una cartolina inviatagli dal giornalista Vittorio Varale. Così, giunto al rifugio, Torino si fece indicare la posizione delle Grandes Jorasses dal gestore.
Ma la sua tecnica alpinistica non fu usata solo per aprire nuove vie, ma fu anche messa al servizio della resistenza durante la seconda guerra mondiale.
In un intervista Giacinto Domenico Lazzarini, detto Fulvio, il colonnello italo-canadese che il 6 febbraio 1945 fu paracadutato al Pian dei Resinelli per coordinare le ultime fasi della lotta contro i nazifascisti, disse: “Non potrò mai avere parole sufficienti per il Gruppo Rocciatori della Grigna che fu il nucleo della vera Resistenza lecchese, comandato da Cassin e da me. Essi furono eroici sia durante i mesi della mia permanenza, sia durante la battaglia per la liberazione di Lecco”
Per questo gli furono dedicate numerose onorificenze.
Fu Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e Medaglia d’Oro al valore atletico.
Anche se, ricordando quegli ultimi momenti subito dopo la liberazione di Lecco, nella quale fu anche ferito ad una gamba, amava dire: “Non ci sentivamo eroi, ma solo uomini liberi che, finalmente, potevano tornare ad essere solo alpinisti”.
Questo, forse perché come sosteneva Goethe: “I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi”.
E su questa scia che proseguì tutta la vita del Cassin, continuando, sempre, a percorrere nuove salite ed effettuando anche grandi missioni all’estero.
Un uomo che non si fermò mai e che per i suoi 78 anni ripeté due volte in una settimana la sua ascensione, nel 50° anniversario dall’apertura della via, al Pizzo Badile.