Allarme attentati in Europa lanciato da Europol. “E’ probabile che l’Isis compia presto nuovi attacchi, anche con l’utilizzo delle autobomba contro Paesi che fanno parte della coalizione a guida Usa che combatte contro lo Stato islamico in Siria e Iraq”. Questo l’ultimo messaggio diffuso dai media su informazioni fatte filtrare dalle intelligence del vecchio Continente. Il rapporto di Europol sottolinea anche che gli attacchi in Francia e Belgio degli ultimi due anni mostrano come in effetti gli estremisti che agiscono nel nome dell’Isis siano in grado di condurre operazioni complesse. Il Ministro dell’interno Alfano commenta il warning cercando di rassicurare l’opinione pubblica: “Lavoriamo giorno e notte con le nostre forze dell’ordine… Siamo un Paese esposto come tutti gli altri Paesi che dalle torri Gemelle in poi compongono la coalizione antiterrorismo e fin qui la prevenzione ha funzionato”.
Al di là delle rassicurazioni, tuttavia, conviene ragionare a mente fredda sui metodi e sugli strumenti più efficaci in questa guerra dalle inedite asimmetrie e su come l’Italia si sia attrezzata per fronteggiare la minaccia, ma soprattutto per prevenirla, prendendo atto che finora il nostro Paese sia stato praticamente risparmiato da gravi eventi terroristici. Durerà la tregua? In questa riflessione ci viene in soccorso Claudio Galzerano, Direttore del servizio centrale antiterrorismo, che ha partecipato al seminario “Stampa e terrorismo internazionale, tra diritti e sicurezza”, tenutosi a Roma a cura dell’ordine dei giornalisti il 1° dicembre scorso.
Galzerano ha esaltato l’efficienza del sistema di prevenzione messo in campo dall’Italia, sottolineando in primo luogo l’apporto fondamentale dello scambio e della cooperazione informativa fra servizi e polizie degli Stati membri dell’Unione europea ai fini di un’efficace lotta al jihadismo criminale. Ha dovuto ammettere, purtroppo, che la tanto auspicata cooperazione stenta ad affermarsi fra tutti i partner. Soprattutto la Francia è restia a comunicare le informazioni in suo possesso relative ai foreign fighters e alle operazioni anti Isis. Al contrario – sostiene Galzerano – a casa nostra le cose stanno cambiando. L’approccio al problema “prevenzione” è divenuto più flessibile e dinamico, vincendo le resistenze a collaborare che tradizionalmente caratterizzavano i nostri apparati d’intelligence e di sicurezza. Lo testimonia un organismo di recente istituzione, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (CASA), “struttura interforze che costituisce la stanza di compensazione delle evidenze informative provenienti tanto dal modo dell’intelligence quanto da quello della law enforcement”.
In altre parole – spiega Galzerano – “nel quadro di un metodo di lavoro che valorizzi i principi di sinergia e collegialità, il nostro sistema di prevenzione individua nel Casa il luogo istituzionale di alto coordinamento in cui le articolazioni antiterrorismo delle forze di polizia e degli organismi d’intelligence lavorano fianco a fianco con metodica frequenza, attivando uno scambio osmotico il cui risultato finale è quello di rafforzare il patrimonio informativo di ciascuna componente. Si tratta di una metodologia di lavoro che può essere considerata una vera e propria best practice italiana, la cui esportazione a livello europeo, già proposta dal nostro Paese, costituirebbe un valore aggiunto nell’impegno dei singoli Paesi a contrastare una minaccia globale e altamente diffusiva come quella jihadista”.
Una metodologia che, indubbiamente, ha prodotto risultati positivi: alcuni arresti, diverse espulsioni di sospetti jiahdisti, qualche attentato sventato, ma nessuna vittima civile. E’ tutto merito dei nostri 007? Forse sì, ma probabilmente incidono anche altri fattori come il low profile assunto dal nostro Paese in materia di geopolitica e il ruolo di supporto e non di attacco giocato nelle missioni internazionali di peacekeeping e peacebuilding. Si spera, però, che sia priva di fondamento l’ipotesi di accordi underground con spezzoni del jiahdismo sul genere di quelli stipulati negli anni ’70 e ’80 con l’FPLP di Habbash, meglio conosciuti come “Lodo Moro”, che consentivano ai gruppi palestinesi l’agibilità e l’impunità in territorio italiano (trasporto armi e basi logistiche), purchè si evitassero azioni dirette ai danni di obiettivi domestici.