Si parla sempre più spesso di ripresa, che accelererebbe il passo consolidando le proprie basi, ma disoccupazione, precariato, emarginazione, non accennano a ridursi. Ora sono oltre 9,3 milioni gli italiani che non ce la fanno e sono a rischio povertà: così è sempre più estesa l’area del disagio sociale. Crescono in particolare gli occupati-precari: in un anno, dunque, è aumentato il lavoro non stabile per 28mila soggetti che vanno ad allargare la fascia dei cittadini a rischio. E’ quanto rileva Unimpresa. Ai “semplici” disoccupati, sostiene l’associazione, vanno aggiunte ampie fasce di lavoratori, ma con condizioni precarie o economicamente deboli che estendono la platea degli italiani in crisi. Si tratta di un’enorme “area della sofferenza”: agli oltre 3 milioni di persone disoccupate, bisogna sommare i contratti di lavoro a tempo determinato part time e quelli a orario pieno. Vanno poi considerati i lavoratori autonomi part time, i collaboratori e i contratti a tempo indeterminato part time. Questo gruppo di persone occupate – ma con prospettive incerte circa la stabilità dell’impiego o con retribuzioni contenute – ammonta complessivamente a 6,27 milioni di unità, secondo le stime dell’associazione. Di conseguenza, il totale dell’area del disagio sociale, calcolata dal Centro studi di Unimpresa sulla base dei dati Istat, alla fine del 2016 comprendeva quindi 9,34 milioni di persone, in aumento rispetto al 2015 di 105mila unità (+1,14%).
“Le aziende italiane hanno bisogno di risorse e incentivi per crescere e svilupparsi dunque per avere i presupposti necessari a creare nuova occupazione. C’è bisogno di più lavoro per gli italiani: in questo senso, vanno accolti con favore tutti gli strumenti e le misure volte a rendere meno onerose le assunzioni di lavoratori, meglio se si tratta d’interventi strutturali e non di aiuti una tantum”, commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara. Bene, pertanto, le risorse per il lavoro giovanile che il Governo si appresta a inserire nella prossima legge di bilancio. Riteniamo invece sbagliato insistere con forme di sussidio, perché strumenti come il reddito d’inclusione alimentano l’assistenzialismo e disincentivano, di fatto, la crescita economica. I poveri non vanno lasciati nella loro condizione”, conclude Ferrara.