Viviamo in un tempo curioso e, per certi versi, sconcertante, ricco di scoperte e d’invenzioni prodigiose, ma anche saturo di contraddizioni, alienazioni e nuove sofferenze: un’età del Caos che prelude non si sa bene a cosa. Fatto sta che ogni giorno siamo costretti a confrontarci con eventi inaspettati e talora bizzarri, se non tragici. Una recente notizia ci dà, forse, la misura di questa dimensione straniante nella quale siamo immersi: ora è possibile essere licenziati via WhattsApp. Non si tratta di una mera comunicazione cui poi seguirà l’atto formale, bensì dell’atto legale in sé. Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale del Lavoro di Catania il 27 giugno scorso sulla base della considerazione che il messaggio inviato sul cellulare equivalga a una forma scritta e sia, quindi, ammissibile. Peccato che non sia ancora obbligatorio possedere uno smartphone e, soprattutto, che non si debba per forza essere connessi a WhattsApp. Esultano, comunque, gli avvocati difensori dell’azienda che, appresa la notizia del respingimento del ricorso presentato dall’ex dipendente, hanno dichiarato: “Siamo soddisfatti! La pronuncia del Giudice del Lavoro del Tribunale di Catania – spiegano – dimostra come anche il diritto debba fare i conti con le nuove tecnologie e le nuove forme di comunicazione come WhatsApp e i social media, che fanno ormai parte integrante della quotidianità di ognuno e che non possono non vedersi riconosciuti un valore anche giuridicamente rilevante”. Tutto ciò in un Paese in cui il lavoro nero e non tutelato è diffusissimo, nel quale persistono sacche consistenti di “schiavitù” e supersfruttamento come nel caso del caporalato e della manodopera extracomunitaria impiegata nei campi del Sud, ma anche del Centro-Nord. Che strano! Il diritto e i tribunali sanno recepire le nuove tecnologie, però, si dimostrano impotenti quando si tratta di bonificare queste drammatiche situazioni di palese illiceità che rinviano a dimensioni arcaiche di stampo precapitalistico.