Primo di una serie di incontri, “Piattaforme digitali e futuro del lavoro” è stato un interessante seminario – organizzato da Gianni Rosas (responsabile della Rappresentanza OIL- Organizzazione internazionale del lavoro a Roma), con Riccardo Stagliano (La Repubblica) in veste di moderatore – che ha visto sia la presentazione dei risultati di alcuni lavori di ricerca; sia una tavola rotonda, con Rappresentanti del governo e delle parti sociali (sindacati e confindustria), finalizzata a incentivare il dialogo sociale tripartito.
Il mondo del lavoro sta cambiando. Questo, in estrema sintesi, quanto emerso nel seminario, in particolare, in merito alla cosiddetta GIG economy (la cosiddetta economia dei lavoretti). La GIG-economy – termine che include crowdwork / lavoro on-line ( v. Amazon, Mechanical Turk, Clickworker, Crowdflower, Jovoto, Microstask, Topcoder, Upwork) e lavoro “on demand tramite app” (v. Uber, Lyft, TaskRabbit, Handy, Wonolo) – è un tipo di lavoro, facilitato dalle tecnologie digitali, che fa incontrare domanda e offerta, e può anche offrire ulteriori opportunità di lavoro. Ma è anche un tipo di lavoro che implica molti rischi: nuove forme di lavoro invisibile, elusione dei minimi contrattuali e dei salari minimi (dove esistenti), decisione e modifica unilaterale delle condizioni di lavoro e di pagamento, abusi (lavoro forzato e lavoro minorile), discriminazioni (lavoro nero non standard), rating (valutazioni) quale capitale di voti non trasferibile, ecc. ecc. Ha sottolineato Valerio De Stefano (OIL).
E’ un tipo di lavoro che induce – tra l’altro – bassi redditi e debolezza della domanda e dei consumi. Di qui nuovi modelli di bussiness, e l’opportunità di una reazione proattiva da parte dei soggetti sociali. Ha evidenziato Dario Guarascio (INAPP). E’ possibile collegare GIG-Economy (che attiene distribuzione e vendita) – frutto di flessibilità esterna – e Industry 4.0 (che attiene manifattura e produzione) frutto di flessibilità interna dei rapporti di lavoro per orari disciplina del salario ecc. Ci sarebbe – innanzitutto – da chiedersi : chi è il datore di lavoro, e dov’è? Se una persona è investita da un ciclista Delivery, chi ne risponde penalmente è a San Francisco, o a Milano? In Italia, abbiamo un possibile anticorpo (art. 2 del Jobs Act). A livello Ue, il Pilastro europeo dei diritti sociali offre delle opportunità. Ha evidenziato Michele Faioli (Universita di Tor Vergata) che ha anche ricordato un libro su Industry 4.0 e contrattazione collettiva (edizioni Giapichelli) – appena pubblicato – che mette a confronto Italia, Francia e Germania.
Le tecnologie dovrebbero migliorare le condizioni di vita e di lavoro. Le piattaforme indicano un’evoluzione del mercato del lavoro, e non creano sempre distorsioni. Se in Italia non saranno aumentate le competenze digitali, resteranno inevasi un 500-700mila posti di lavoro. Ciò detto, servono sia azioni legislative, sia azioni politiche e confronto con le parti sociali. Ha sottolineato Donato Montibello (Ministero del lavoro e delle politiche sociali). Per la concorrenza non c’è da mettere nel sacco tutti gli stessi pesi, c’è da levarli. Servono forme di organizzazione del lavoro più flessibili. E – considerando la realtà e la sua frammentazione – devono cambiare anche le tutele. L’omogeneità delle tutele è un errore clamoroso. Ha sottolineato Massimo Marchetti (Confindustria).
Internet è anche una forma di democratizzazione economica (ad esempio, permette a figli di operai di comprare cose un tempo loro inaccessibili). Industry 4.O – GIG economy – Sharing economy: innanzitutto, c’è da chiarire di cosa si parla. Poi c’è da analizzarne il suo impatto sui modelli di vita, sulle imprese, sulle relazioni del lavoro, e sul lavoro; su produzione prodotti e finanza; sui trasporti e il loro costi. Rispetto alla Germania, l’Italia arriva un po’ più tardi nella sua riflessione in materia. Circa la GIG economy, c’è anche una difficoltà di analisi statistica: chi fattura? Sono iscritti a qualche Albo professionale? Quante persone sono coinvolte in questo tipo di prestazioni? Un tempo questi lavoretti erano integrativi. Ora tendono a moltiplicarsi, perché non si hanno alternative; e non li fanno solo giovani ragazzi/e ma persone di fasce – di popolazione – attive. Poi.. ci sono le persone che li scelgono. Il “Fai te il prezzo” non funziona. Va posto un problema di regolazione (privatistica – per legge). E va visto anche dove si pagano le tasse. Ha sottolineato da parte sua Guglielmo Loy, parlando per Cgil Cisl Uil.
A questo punto (anche a chi non se sa nulla) sarà oramai chiara la complessità di questa problematica, e di questo nuovo tipo di lavoratori, che piccoli sindacati inglesi hanno di recente definito “workers”. Si tratta di una vera e propria terra di mezzo per la cui regolazione andrebbe, a mio avviso, posta debita attenzione anche al livello di territorialità cui si intende intervenire. Il livello nazional-locale non basta (se si vuole far fronte al dumping sociale). A livello UE, c’è da sapere cogliere l’opportunità dei lavori in corso sul Pilastro europeo dei diritti sociali. Ma, anche tramite l’Oil, come per le catene di fornitura, la questione va/andrebbe affrontata anche a livello di G20, e cioè, a livello globale. No?