I piccoli Comuni si stanno risvegliando? Assillati dallo spopolamento, assediati dalla desertificazione sociale, impoveriti dalla carenza di risorse e dalla fuga delle imprese, penalizzati persino dalla Natura matrigna attraverso terremoti e alluvioni, i centri minori si sforzano di rialzare la testa e di inaugurare una nuova stagione di rinascita. Il processo di rilancio è partito, ma i tempi di realizzazione sono lunghi. I dati attuali sono sconfortanti. A oggi, nei centri che non raggiungono i 5mila abitanti vivono in tutto 10 milioni di persone. Una su sette se n’è andata dal 1970 e due milioni di case sono rimaste vuote. Intanto, dal 1951 l’Italia è cresciuta di 12 milioni di unità, mentre i paesini di montagna ne perdevano 900mila. Esiste un elenco di 311 Comuni che fotografa la parabola discendente di tanti minuscoli borghi e villaggi. Ora che l’agenda è cambiata, ora che la proposta di legge per lo sviluppo dei piccoli Comuni è stata approvata alla Camera all’unanimità e che è stato stanziato un fondo di 100 milioni per rispondere ai bisogni specifici di queste comunità, è arrivato il momento di individuare soluzioni adeguate. Il compito è arduo, perché il primo ostacolo da affrontare è di tipo culturale, addirittura psicologico. Per quale motivo le persone che se ne sono andate dovrebbero tornare indietro? Perfetta la sintesi di Massimo Castelli, coordinatore nazionale dei piccoli Comuni dell’Anci: “Che senso ha fare ‘Casa Italia’, se poi nessuno più vuole restare, in questi posti?». Il riferimento è al piano allo studio per far rinascere e ripopolare la dorsale appenninica: per evitare errori in futuro, occorrerà prima conoscere quelli commessi nel passato. «Negli anni Settanta – osserva Castelli – le politiche territoriali facevano di tutto per disincentivare l’agricoltura o per dare contributi a chi abbandonava il bestiame. Si diceva: lasciate i campi, andate in città e cercatevi un posto in fabbrica. In altre parole, la ruralità era considerata obsoleta. I danni fatti all’epoca si pagano oggi». Lo sradicamento culturale non ha portato però all’automatica cancellazione delle radici, che sono rimaste. Sono stati soprattutto i primi cittadini a svolgere un ruolo d’avanguardia per rivendicare con maggior determinazione rispetto al passato l’appartenenza a queste terre. «Lo spirito di comunità c’è ancora e si ricrea quasi naturalmente. Anche tra italiani e stranieri. In tanti paesini, ad esempio, i cambiamenti sociali sono avvenuti senza grossi traumi. La figura della badante, per fare un esempio, è richiesta qui tanto quanto nei grandi centri», continua Castelli, primo cittadino di Cerignale, nel Piacentino, che aveva 600 abitanti nel 1971 e oggi ne ha 137. «È vero, in molti casi a presidiare le quattro mura che resistono sono solo gli anziani, i bambini sono sempre di meno e le scuole chiudono. Ma non è un buon motivo per fermarsi. In attesa dell’annunciato piano “Controesodo” targato Anci e allo studio dell’esecutivo (un piano sin qui dai contorni indefiniti), è utile segnalare le priorità di questo momento storico. Partiamo dalla fiscalità di vantaggio: via l’Irap alle imprese che si insediano in aree marginali. Secondo: è necessario un fondo perequativo per reinvestire nelle zone in cui si produce. Terzo: messa in sicurezza del territorio, perché l’abbandono ha voluto dire in questi anni dissesto strutturale, alluvioni e frane. Quarto: più servizi, più mobilità e finalmente la banda larga. Quinto: mantenere i presidi che ci sono, a partire dalle farmacie e dalle poste, e trovare modalità che consentano di “richiamare” chi è partito. Serve un vero e proprio “piano Marshall”, dunque, che metta risorse e idee in circolo al più presto. Del resto, i più bravi a inventarsi qualcosa di nuovo per dar significato a questa ostinata “resistenza”, sono da sempre quelli del posto”. Non c’è dubbio: il motore del rilancio dei piccoli Comuni non potrà che essere un rinnovato e potenziato attivismo civico.