L’approssimarsi del referendum sulle riforme costituzionali ha riacceso il dibattito tra le forze politiche e gli accademici del diritto. Molteplici e variegate le posizioni in campo. Da segnalare, in particolare, l’articolo di Valerio Onida, pubblicato dal Corriere della Sera del 10 maggio, che, offrendo interessanti spunti di riflessione, a sua volta richiama un pezzo di Sabino Cassese ‘Perché la riforma costituzionale non tradisce la Repubblica’. Onida lo considera un valido esempio del modo in cui bisognerebbe discutere il merito delle riforme, contrastando la tendenza a farne un plebiscito sul Governo e focalizzando, invece, le due questioni chiave del progetto riformatore: superamento del bicameralismo e ruolo delle Regioni.
“La seconda Camera – sottolinea l’autore – nella tradizione costituzionale essa non ha tanto la funzione di garanzia contro eventuali eccessi della prima Camera, anche perché la nostra storia è stata sempre, fino agli anni recentissimi, espressione dei medesimi rapporti fra maggioranza e opposizione, ma piuttosto la funzione di rappresentare istanze differenziate della società. La scelta, quindi, di configurare esplicitamente il Senato come camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, le Regioni, appare di per sé ineccepibile. Il problema è il modo in cui la riforma lo fa, non mettendo i nuovi senatori nelle condizioni di esprimere unitariamente la volontà delle rispettive Regioni, e negando al Senato funzioni di efficace dialogo e raccordo con la Camera e con il Governo sui temi delle autonomie”. Quindi, saremmo di fronte a un principio corretto declinato in modo inadeguato e improprio che smentirebbe le premesse di partenza.
Sul tema del regionalismo, la riflessione di Onida si carica di accenti critici più incisivi. “La legge costituzionale di oggi – afferma – fa invece una scelta a mio avviso radicalmente sbagliata: non limitandosi a correggere alcuni evidenti errori, da tutti ammessi, della riforma del 2001, ma configurando un nuovo quadro nel quale l’autonomia legislativa delle Regioni viene praticamente ridotta a zero…”. Non vi è dubbio, in effetti, che appaiano oscure e incongruenti norme come quelle che riservano alla competenza ‘esclusiva’ dello Stato, materie tipicamente regionali quali il governo del territorio, ma limitandole al compito di dettare “disposizioni generali e comuni”. Putroppo, le norme legislative sono sempre ‘astratte e generali’ e non contengono provvedimenti concreti. E non potrebbe essere altrimenti… In altre parole, bisogna riconoscere che il progetto riformatore traduce in termini d’impianto costituzionale un disegno sostanzialmente neocentralista che mira a ridurre i livelli di autonomia degli enti regionali e locali, alla faccia del tanto decantato federalismo dell’ultimo decennio, da tutti evocato e sponsorizzato.
Dalla riforma – osserva Onida – uscirebbe un sistema di Regioni (diseguali fra loro per dimensione, per cultura istituzionale prevalente, per capacità operative) ridotte al rango di super Province (abolite le storiche province amministrative), prive della possibilità di esprimere le potenzialità dell’autonomia sul terreno legislativo, non pervenendo neppure a una maggiore chiarezza nel riparto delle competenze fra Pa centrale e regionale. Senza scongiurare, di conseguenza, eventuali contenziosi fra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale. Corte che, peraltro, si è resa protagonista di una pronuncia affatto singolare: dichiarare illegittima la legge con cui è stato eletto l’attuale Parlamento e, tuttavia, riconoscerne la continuità operativa senza richiederne – come sarebbe accaduto in qualsiasi altro Paese democratico – le immediate dimissioni. Quanto al Parlamento illegittimamente eletto, appare oltremodo paradossale che esso si sia assunto con disinvoltura l’onere e la responsabilità di modificare la stessa Costituzione…
Tornando al tema dell’autonomia, Onida segnala che “in Italia da sempre si confrontino due ‘scuole’ del diritto amministrativo, quella ‘romana’di cui Cassese è esponente di spicco e quella ‘nordica’ sulla scia di esponenti come Benvenuti e Pototschinig, cui corrispondono due diverse sensibilità su questa delicata materia. A questo proposito, si deve riconoscere la fondatezza del ragionamento dell’autore quando dice che “il principio dell’autonomia è iscritto fra i principi fondamentali della Costituzione. Non si tratta, per nessuno, di negare che i diritti fondamentali dei cittadini vadano tutelati in tutto il territorio… ma di lasciare spazio reale alle iniziative delle comunità territoriali sub statali, sostituendosi al tradizionale centralismo dello stato napoleonico. Il cambiamento prospettato avverrebbe oltretutto senza nemmeno il contrappeso di una vera “Camera delle Regioni” in grado di intessere un dialogo non subalterno con le istanze centrali. Ecco perché la riforma – sentenzia – non mi pare un passo avanti, ma uno indietro”.
La discussione procede e s’infiamma. I prossimi mesi saranno cruciali per orientare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro. Saranno comunque i cittadini, alla fine, col loro voto, a dire se vogliono più autonomia o più centralismo; se preferiscono un esecutivo rafforzato o un Parlamento più autorevole.