La Banca del Mezzogiorno fu un’idea del ministro Tremonti che prese il Mediocredito Centrale, gli cambiò nome e la passò sotto il controllo di Poste Italiane. Il progetto, mai chiaro negli obiettivi e nelle azioni che la banca avrebbe dovuto perseguire, fu poi superato dai cambi di governo che non hanno più utilizzato a fini strategici l’istituto bancario. Il piano industriale varato nel 2015 non aveva ambizioni particolari e di fatto la banca oggi gestisce solo quello che forse è l’unico vero sistematico strumento di incentivazione per le aziende, il Fondo di Garanzia per le Pmi. Le attività bancarie vere e proprie sono ridotte al minimo e anche la gestione del Fondo Crescita Sostenibile, ripartita tra un raggruppamento di banche, non costituisce un’attività rilevante dell’istituto. Non sarebbe invece stato difficile immaginare alcune strategie di maggior impatto, come ad esempio sfruttare la capillarità della rete di Poste italiane per operazioni massive di microcredito nel Sud.
Eppure il Mediocredito Centrale, inizialmente sotto la guida di Gianfranco Imperatori, è stato fino al 2008 un istituto che ha gestito investimenti e strumenti finanziari di sviluppo in maniera sistematica – anche attraverso una sua partecipata – quali ad esempio un elevato numero di patti territoriali e contratti d’area, la cosiddetta programmazione negoziata alla fine degli anni 90. L’efficacia di questa programmazione e di altri strumenti finanziari (l. 488-92) per il Sud è senz’altro discutibile. Stessa cosa si può affermare però dei risultati dei programmi operativi 2007-2013, perchè incrementi sostanziali del PIL pro-capite non sono stati registrati, anzi la Basilicata per il 2014-2020 è tornata tra le regioni del Mezzogiorno che possono beneficiare di più fondi. Ora, sebbene io sia contrario alla presenza dello Stato nelle società e nelle banche, e nonostante si sia in attesa del famigerato taglio delle 8mila partecipate pubbliche, il rilancio di una banca dedicata agli investimenti in grado di attrarre l’ingente quantità di denaro che i privati destinano spesso solo a mere speculazioni finanziarie potrebbe contribuire in modo importante alla ripresa economica, facendo appunto da volano alla finanza privata.
L’intervento pubblico è giustificato dal fallimento del mercato e in Italia il crollo degli investimenti registrato dall’inizio della crisi in poi è sicuramente classificabile come tale. Il nostro debito non consente politiche espansive e trovare il modo di stimolare l’intervento privato con una banca specializzata in operazioni di project finance può essere una soluzione. Il Governo con la legge di Stabilità aveva tentato di creare un’Agenzia per il Project Finance e i Partenariati Pubblico-Privato, idea poi stralciata per mancanza di copertura finanziaria. Adesso si sentono voci che danno come imminente il passaggio della Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale alla Cassa Depositi e Prestiti. Una consistente quota di Poste Italiane – è appena stato deciso – andrà ad aumentare il capitale sociale della CdP per consentirgli di svolgere con più incisività e potere economico il ruolo di motore finanziario per la crescita. In questo contesto un eventuale passaggio del Mediocredito alla Cdp assumerebbe coerenza di intenti, pure rispetto ad una precedente ipotesi di passaggio ad Invitalia, società in-house del Ministero dello sviluppo economico.
Tuttavia è necessario che la Banca ritrovi una guida e professionalità adeguate e che il Governo – oltre a portare avanti i patti per il Sud – vari al più presto una reale semplificazione delle procedure (riforma delle PA e nuovo codice appalti non sembrano finora poter garantire un reale progresso in tal senso) e incentivi l’uso di capitali privati verso gli investimenti anche di piccole dimensioni, non solo per le grandi infrastrutture. Se si vuole che i privati – anche stranieri – si facciano carico di investimenti nel nostro paese, è ora che il Governo garantisca le condizioni per realizzarli. Se l’economia non ripartirà adesso, con tutta la liquidità presente sui mercati, il basso prezzo del petrolio e un cambio favorevole euro/dollaro, il futuro del nostro paese potrebbe essere davvero inquietante.
L’Unione europea dispone della Banca Europea per gli Investimenti e con il Piano Juncker sta cercando di trasformare 21 miliardi di risorse finanziarie in oltre 300 miliardi di euro di investimenti. L’EFSI, il Fondo europeo per gli investimenti strategici, è sostanzialmente uno strumento di garanzia per attrarre risorse private. L’Italia non deve essere da meno. Una banca già la possiede, un fondo di garanzia già lo gestisce e la CdP ha già ingenti dotazioni finanziarie, in alcuni casi a lungo inutilizzate. Mettere tutto a sistema per agevolare la realizzazione di investimenti e far ripartire il paese non è solo un obbligo morale, ma una necessità improrogabile.