Mancano cinque mesi al referendum sulla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi ma è come se si dovesse votare tra pochi giorni. I toni sono già accesi e lo scontro si concentra su temi a volte surreali. La campagna elettorale per eleggere i sindaci delle più importanti città italiane risulta quasi oscurata.
Mentre tiene ancora banco la polemica sui partigiani e la riforma della Costituzione, Matteo Renzi cala la carta dei costituzionalisti. Ben 184 giuristi e docenti universitari, tra cui Stefano Ceccanti, Salvatore Vassallo, Roberto Bin, Stefano Pizzorno, Angelo Panebianco, Franco Bassanini e Tiziano Treu, hanno firmato un manifesto (clicca per leggere tutti i nomi) in cui spiegano perché bisogna dire Sì alla riforma costituzionale.
Se non è una guerra di numeri certo gli assomiglia, quella che viene sferrata dal sito del comitato del Sì, promosso da Pd e governo, che lancia in rete una lista di costituzionalisti e di professori di tutta Italia, come primi firmatari del manifesto del Sì. E quindi in contrapposizione di fatto con i 56 costituzionalisti che hanno firmato una lettera con le ragioni del No nelle scorse settimane.
Il 23 maggio è stato reso noto un manifesto per il sì sottoscritto da più di 180 professori universitari, secondo i quali “dopo anni e anni di sforzi vani, il Parlamento della XVII legislatura è riuscito a varare con una larga maggioranza – quasi il sessanta per cento dei componenti di ciascuna Camera in ognuna delle sei letture – una riforma costituzionale che affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. Secondo i firmatari “il testo modifica molti articoli della Costituzione, ma non la stravolge” e anche se “nel progetto non c’è forse tutto”, c’è però “molto di quel che serve”. La riforma – si legge nel documento sottoscritto risponde essenzialmente a 7 esigenze
Prima di tutto si supera “l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato, con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo. Pregio principale della riforma, il nuovo Senato delinea un modello di rappresentanza al centro delle istituzioni locali. E’ l’unica ragione che oggi possa giustificare la presenza di due Camere”.
Si creano poi “due modelli principali” di procedimento legislativo, “a seconda che si tratti di revisione costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di raccordo fra Stato e autonomie, dove Camera e Senato approvano i testi su basi paritarie, mentre si prevede in generale una prevalenza della Camera politica, permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte le leggi, impedendo eventuali colpi di mano della maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l’ultima parola”.
La riforma del Titolo V “tipizza materie proprie di competenza regionale” e per “la prima volta, non si assiste ad un aumento dei poteri del sistema regionale e locale, bensì ad una loro razionalizzazione e riconduzione a dinamiche di governo complessive del paese. La soppressione della legislazione concorrente non è prodromica tuttavia all’azzeramento delle competenze regionali, poiché serve solamente a razionalizzare in un’ottica duale il riparto delle materie e comporta di per sé una riallocazione naturale allo stato o alle regioni della competenza a disciplinare, rispettivamente, i principi fondamentali e le norme di dettaglio che già spettava ad ognuno di essi”. Ma “l’impianto autonomistico delineato dall’art. 5 della Costituzione non viene messo in discussione perché la riforma pone le premesse per un regionalismo collaborativo più maturo, di cui la Camera delle autonomie territoriali costituirà un tassello essenziale. Con la riforma, peraltro, non viene meno il principio di sussidiarietà e dunque la dimensione di una amministrazione più vicina al cittadino rimarrà uno dei principi ispiratori della Costituzione”.
Altra necessità a cui risponderebbe la riforma è, secondo gli estensori del documento è il riequilibrio dei “poteri normativi del governo vengono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d’urgenza”
Al quinto punto il documento pone il potenziamento del sistema delle garanzie con “il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione”.
Altro traguardo importante è la “decisa semplificazione istituzionale, attraverso l’abolizione del Cnel e la soppressione di qualsiasi riferimento alle province quali enti costitutivi della Repubblica”.
Nel settimo ed ultimo punto si fa riferimento allo “sforzo per ridurre o contenere alcuni costi della politica è significativo: 220 parlamentari in meno (i senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro indennità resta quella dell’ente che rappresentano); un tetto all’indennità dei consiglieri regionali, parametrata a quello dei sindaci delle città grandi; il divieto per i consigli regionali di continuare a distribuire soldi ai gruppi consiliari”.
Certamente, sottolineano i professori firmatari, “il testo non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie. Ma dobbiamo tutti essere consapevoli che, in Italia come in ogni altro ordinamento democratico , le riforme le fanno necessariamente i rappresentanti del popolo nelle assemblee politiche, non comitati di esperti”.
Bisogna “guardare al progetto varato dal Parlamento e offerto ai cittadini nel suo complesso” perché se si dovessero artificialmente separare i contenuti in più quesiti, rischieremmo di ottenere esiti schizofrenici, come mantenere il bicameralismo paritario e non invece la riforma dell’assetto regionale, o l’esito opposto. Né sarebbe pensabile che nello stesso procedimento i parlamentari votino sull’insieme e i cittadini no”. “Così come tutto si tiene nella Costituzione del 1948, anche nella riforma di cui stiamo discutendo – si legge nel documento – è evidente che superamento del bicameralismo, riforma del procedimento legislativo, razionalizzazione dei poteri regionali fanno parte di un unico disegno che può essere positivamente valutato e non può essere artificiosamente suddiviso per una mal posta esigenza di omogeneità. A quanti, come noi, sono giustamente affezionati alla Carta del 1948, esprimiamo la convinzione che – intervenendo solo sulla parte organizzativa della Costituzione e rispettando ogni virgola della parte prima – la riforma potrà perseguire meglio quei principi che sono oramai patrimonio comune di tutti gli italiani. Lungi dal tradire la Costituzione, si tratta di attuarla meglio, raccogliendo le sfide di una competizione europea e globale che richiede istituzioni più efficaci, più semplici, più stabili”.
Tra i firmatari del manifesto del sì: Franco Bassanini (Astrid/Roma La Sapienza), Raffaele Bifulco (Luiss), Roberto Bin (Ferrara), Massimo Bordignon (Milano Cattolica), Marco Cammelli (Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Roma La Sapienza), Massimo Carli (Firenze), Stefano Ceccanti (Roma La Sapienza), Vincenzo Cerulli Irelli (Roma La Sapienza), Mario Pilade Chiti (Firenze), Marcello Flores d’Arcais (Siena), Francesco Pizzetti (Torino), Tommaso Edoardo Frosini (Napoli Suor Orsola Benincasa), Tania Groppi (Siena), Angelo Panebianco (Bologna); Pasquale Pasquino (New York University); Mario Ricciardi (Milano)¸ Alessandro Sterpa (Tuscia), Fulvio Tessitore (Napoli Federico II), Luisa Torchia (Roma Tre), Tiziano Treu (Milano Cattolica), Paolo Urbani (Roma Luiss), Luciano Vandelli (Bologna), Salvatore Vassallo (Bologna).
Il documento degli oltre 180 professori rappresenta anche una risposta al testo elaborato da una cinquantina di costituzionalisti (con diverse valutazioni critiche sulla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum) “preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni” possa rivelarsi “una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione”. Secondo questo documento “l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo” è “stato perseguito in modo incoerente e sbagliato”. “Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali [….]si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo”, dove “non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche”. “L’assetto regionale della Repubblica – si legge ancora nel documento – uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali)”.
“Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento […] di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma […] limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL” non sembrano essere “modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri”.
“Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo”, ma “questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici”.
Infine “se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente). Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.
Tari i firmatari di questo documento: Luca Antonini (Università di Padova), Antonio Baldassarre (Università LUISS di Roma), Paolo Caretti (Università di Firenze), Francesco Paolo Casavola (Università di Napoli Federico II), Enzo Cheli (Università di Firenze), Riccardo Chieppa (Magistrato), Ugo De Siervo (Università di Firenze), Stefano Grassi (Università di Firenze), Andrea Manzella (Università LUISS di Roma), Guido Neppi Modona (Università di Torino), Valerio Onida (Università di Milano Statale).
Il tema è presente anche su diversi quotidiani.
Su il Sole 24 ore del 24 maggio dà voce alle ragioni del sì Stefano Ceccanti che nel suo intervento scrive fra l’altro: una delle ragioni di fondo, il completamento dello Stato decentrato con un Senato delle Autonomie, riprendendo intuizioni della ; prima parte dei lavori dell’Assemblea Costituente. A differenza dei rapporti tra le due Camere qui bisogna scrivere elenchi di materie e non ; tipi precisi su cui legiferano Stato e Regioni, ma qualsiasi elenco di questo tipo, anche il migliore, porta con sé un certo livello di sovrapposizione. In assenza di un Senato delle Autonomie, che troviamo in forma diversa in tutti gli Stati decentrati, siamo stati costretti a far rifluire il sangue del rapporto centro-periferia in una circolazione extra-corporea che comprende la conferenza Stato-Regioni e la Corte costituzionale. Quest’ultima impiega stabilmente metà del suo tempo per tali conflitti e per anni interi, sinché le cause non sono risolte, vi è un’incertezza tale da scoraggiare investimenti, specie esteri, nel sistema-Paese. Se manteniamo l’opzione per uno Stato decentrato con Regioni con un ruolo significativo non è possibile passare a un monocameralismo secco. Altre soluzioni, più spostate sui Governi regionali come nel modello tedesco, non erano percorribili in un contesto in cui le Giunte sono quasi tutte di centrosinistra Nessuno tranne il Pd avrebbe votato un Senato che nel 2018 avrebbe avuto 80 senatori del Pd. Per queste ragioni, al difuori di qualsiasi personalizzazione, il successo del sì – conclude Ceccanti – rappresenta un’occasione non rinunciabile per l’Italia”.
A sostenere le ragioni del no, sempre sulle colonne de “il Sole 24 ore”, è invece Giuseppe Gargani che, fra l’altro scrive e sottolinea di non essersi “mai accorto che le sciagure del Paese dipendessero dalla doppia lettura delle leggi. E, in ogni caso, se si voleva eliminare questo inconveniente non era necessario sconvolgere l’assetto istituzionale della Repubblica parlamentare, incrinare la “rappresentanza”, mettere ancor più in crisi la democrazia dei partiti. Bastava eliminare il Senato. Una Camera delle autonomie locali così come concepita, con poteri non chiari e precisi, aggraverà inoltre il dualismo parlamentare tra le Regioni e lo Stato. I senatori non eletti ma indicati dalle Regioni saranno portati a difendere le “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni e, quindi – conclude Gargani – a far prevalere criteri politici e inevitabilmente territoriali e non rigide regole costituzionali per dirimere le controversie”.
Sempre su fronte del no “La Repubblica” del 24 maggio ospita un articolo di Stefano Rodotà per il quale “sarebbe antistorico […[] sottovalutare le dinamiche che hanno […] percorso il sistema politico-istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti. Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi – prosegue Rodotà – è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una ‘illimitata compressione della rappresentatività’ del Parlamento, ‘alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza’. Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale. Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire – conclude Rodotà – nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario”.
Sempre “la Repubblica” ospita un’intervista a Riccardo Targetti, procuratore aggiunto a Milano, che rende pubblico il sì alla riforma: “non condivido tutto, ma meglio questo dell’ingovernabilità”. “Credo che la riforma contenga elementi positivi, anche se non tutti. Io sono favorevole a superare il bicameralismo per una ragione fondamentale: una volta le leggi erano destinate a durare nel tempo e era meglio che fossero ben ponderate. Ora la realtà è così in movimento che, appena fatte, le leggi sono già vecchie e devono essere subito aggiornate e il bicameralismo rallenta”. Rispetto a chi paventa una dittatura della maggioranza. Targetti sottolinea che è “una preoccupazione che non condivido e che non condividono altri esponenti del mondo giuridico ben più autorevoli di me. Avremo un Presidente e una Consulta non allineati al premier che potranno controbilanciare il suo aumentato potere; senza con tare il ruolo della magistratura”. Targetti contesta anche il possibile strapotere del premier: “si tratta semmai di un accrescimento del potere dell’esecutivo, come in altre democrazie. Basti pensare – conclude – al Regno Unito, e cito un sistema parlamentare, non una repubblica presidenziale”.