Il Governo che verrà, di qualsiasi colore e orientamento politico sia, dovrà gestire una patata bollente di grosse dimensioni. Si tratta dei dodici miliardi e mezzo di euro collegati agli aumenti delle aliquote Iva che scatteranno nel 2019, se non si troverà la soluzione per disinnescarli entro il mese di dicembre. Come è noto, la “stangata” dipende dalle famigerate clausole di salvaguardia, una sorta di polizza a garanzia dei conti pubblici che entra in vigore automaticamente quando non venga sostituita da misure compensative. Se ciò non accadrà, si verificherà un generalizzato aumento dei prezzi con la conseguente caduta della domanda e, a cascata, si produrrà una battuta d’arresto per la crescita economica. In altre parole, una mazzata stimabile in mille euro per famiglia. Il problema sono i tempi, ammesso che si formi un Governo.
Negli anni passati, ha prevalso la politica del rinvio da parte degli esecutivi, soprattutto aumentando il deficit. Ma ora i nodi stanno venendo al pettine. Diamo un’occhiata ai vari passaggi che si dovrebbero affrontare per scongiurare il trauma di un’Iva al 24%. Facciamo un passo indietro. L’operazione disinnesco andava impostata con il Def programmatico di aprile (mentre il Governo dimissionario si è necessariamente limitato a un documento minimale a legislazione vigente), poi da confermare con l’aggiornamento al Def di settembre e infine materialmente da completare con la legge di stabilità, che va presentata in Parlamento a metà ottobre e varata entro dicembre. Passaggi che, ovviamente, devono essere concordati con le autorità di Bruxelles, poiché l’Italia è sempre tenuta al rispetto del Patto di stabilità. Questi tempi potrebbero non essere rispettati se non avremo a breve un Governo con pieni poteri, soprattutto se si andrà alle urne anticipatamente.
C’è poi la questione di sostanza, che attiene all’entità dei conti da far quadrare. Il Def di aprile fissa il deficit pubblico in discesa dall’1,6% di quest’ anno e allo 0,8% il prossimo anno, un risultato raggiunto proprio grazie alle entrate straordinarie dell’ Iva, che valgono lo 0,7% del Pil, appunto i famosi 12,5 miliardi. Il rebus sta tutto qui: per evitare l’aumento dell’imposta senza pregiudicare il consolidamento dei conti pubblici, non entrando in conflitto al contempo con l’Europa, occorre reperire altre risorse. E come? Sempre con misure antipopolari: taglio delle agevolazioni fiscali o della spesa pubblica. Percorsi entrambi accidentati, sia per la solita questione dei tempi, sia perché una spending review veramente incisiva ricadrebbe sul personale delle Pa e delle imprese collegate. C’è poi l’alternativa dell’aumento del deficit che porterebbe alla rotta di collisione con Bruxelles. Nelle previsioni del 3 maggio, infatti, la Commissione europea ha stimato il deficit italiano all’1,7% nel 2019 senza l’ attivazione delle clausole, ma con un peggioramento al -2% del saldo strutturale, l’ indicatore più importante. Nel settembre 2017, invece, il Governo prometteva di portarlo al +0,4%. Il divario fra le due grandezze sarebbe notevole e non potrebbe essere accettato da Bruxelles, che ha chiesto invano la correzione dei conti da attuarsi nell’anno in corso. Dunque, in questo caso la procedura d’infrazione per l’Italia diventerebbe una prospettiva concreta, perché con l’economia in crescita non sarebbero ammissibili ulteriori concessioni in materia di flessibilità. E allora? Si delinea un vero e proprio rompicapo per chi avrà l’onere, più che l’onore, di governare. Per non parlare del 2020, quando le clausole da eliminare ammonteranno a 19,2 miliardi. Buon lavoro, signori del Governo!