I dati sono quelli presentati ieri a Roma dall’ Ispra nel Rapporto “ Consumo di suolo dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. Lo studio introduce nuove valutazioni sull’impatto della crescita della copertura artificiale del suolo, che provoca la perdita di una risorsa così importante. Un suolo libero da elementi artificiali e non impermeabilizzato, infatti, è fondamentale per il nostro benessere come pure per l’equilibrio dell’ecosistema a livello locale e globale.
Per la prima volta è stato possibile riportare all’interno del Rapporto dati aggiornati all’anno precedente, con un dettaglio a scala nazionale, regionale e comunale, grazie anche al lavoro di monitoraggio delle Agenzie per la protezione dell’ambiente delle Regioni e delle Province Autonome, che insieme all’Ispra costituiscono il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA) recentemente istituito da una norma nazionale che dà forza ad un sistema a servizio del Paese. Uno dei capitoli del Report affronta il tema dei costi nazionali “nascosti”, ossia quelli non direttamente percepiti, che cambiano in maniera sensibile a seconda del servizio ecosistemico perso o danneggiato. In questo ambito si va dalla produzione agricola (oltre 400 milioni di euro), allo stoccaggio del carbonio (circa 150 milioni), dalla protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), ai danni provocati dalla mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni) e dall’assenza di impollinatori (quasi 3 milioni). Solo per la regolazione del microclima urbano (ad un aumento di 20 ettari per chilometro quadrato di suolo consumato corrisponde un aumento di 0.6 gradi centigradi della temperatura superficiale) è stato stimato un costo che si aggira intorno ai 10 milioni all’anno.
Nella classifica regionale stilata dall’Ispra in riferimento al 2015, la maglia nera con oltre il 10% di suolo consumato va alla Lombardia, al Veneto e alla Campania. Sebbene però lo studio condotto in due regioni come Veneto e Abruzzo – dicono all’Ispra – dimostri che i suoli modificati sono quelli con maggiore potenzialità produttiva.
In Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Piemonte, Toscana, Marche troviamo, invece, valori compresi tra il 7 e il 10%. A preoccupare, nel complesso, non è solo conoscere che oltre la metà del territorio nazionale (56%) risulti definitivamente compromesso, ma anche che gli effetti negativi di questa cementificazione incontrollata si ripercuotano sui terreni adiacenti a quelli direttamente coinvolti. La perdita di parte delle funzioni fondamentali del suolo possono, infatti, riflettersi fino a 100 metri di distanza.
Il suolo è una risorsa non rinnovabile che l’uomo, con le sue attività, consuma: le abitazioni, le strade, le ferrovie, i porti, le industrie occupano porzioni di territorio trasformandole in modo pressoché irreversibile. Il ritmo di questi processi è cresciuto a parallelamente allo sviluppo delle economie: quello dell’aumento del consumo di suolo è un fenomeno globale, ma che presenta reali criticità in Paesi di antica e intensa antropizzazione come l’Italia, in cui, per la scarsità di aree edificabili e la progressiva urbanizzazione contende superfici all’agricoltura e spinge all’occupazione di aree sempre più marginali, se non addirittura non adatte all’insediamento, come quelle a rischio idrogeologico. Il Rapporto dell’Ispra conclude dicendo: “Nel triennio 2012-2015 l’Italia si è divisa nettamente in due, con il consumo avvenuto nella metà dei comuni italiani (51%) che coincide con l’incremento della popolazione, mentre l’altra metà (49%) ha consumato a perdere nonostante la popolazione non crescesse. I piccoli comuni (con meno di 5.000 abitanti) sono quelli che hanno i valori più alti di consumo marginale di suolo. Per ogni nuovo abitante divorano mediamente tra i 500 e i 700 metri quadrati di suolo contro i 100 metri quadrati dei comuni con più di 50.000 abitanti”.