Qualche riflessione sulla sentenza della Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 5078 del 16 marzo 2016.
Con una recente pronuncia a Sezioni Unite la Corte di Cassazione ha inteso por fine ad una questione, quella dell’assoggettamento o meno della tariffa rifiuti (cd.T.I.A.1) all’imposta sul valore aggiunto, che aveva nel tempo contrapposto le sue sezioni I e V: mentre in tema di crediti privilegiati, infatti, la I sezione aveva più volte sancito l’irrilevanza ai fini I.v.a. dell’eventuale natura tributaria del prelievo sui rifiuti (Cass. n. 5297/2009, n. 5298/2009 e 5299/2009; Cass. n. 12006/2012, n. 12007/2012; Cass. 17768/2012; Cass. 17994/2012), la V sezione aveva invece costantemente statuito la non debenza dell’I.v.a. proprio muovendo dalla natura tributaria (anche) della tariffa rifiuti sostitutiva della Ta.r.s.u. (Cass. 3293/2012; Cass. n. 3756/2012, Cass. 5831/2012). La posizione della V sezione veniva poi avallata nel 2015 anche dalla VI sezione del nostro supremo Giudice con la sentenza n. 4723.
Più precisamente, il nostro Supremo Giudice ritiene che l’I.v.a. sulla T.I.A. non sia dovuta per la mancanza di entrambi i presupposti richiesti in tale materia, l’uno in positivo (la sussistenza di un rapporto tra prestazione imponibile e suo corrispettivo: cd. elemento oggettivo) e l’altro in negativo (non costituire esercizio di pubblici poteri: cd. esimente soggettiva). Osserva infatti la Corte che tale conclusione trova il proprio fondamento “negli elementi autoritativi che caratterizzano la cd. Tia 1, elementi costituiti dall’assenza di volontarietà nel rapporto tra gestore e utente, dalla totale predeterminazione dei costi da parte del soggetto pubblico – essendo irrilevanti le varie forme di attribuzione a soggetti privati di servizi (ed entrate) pubblici – nonché l’assenza del rapporto sinallagmatico a base dell’assoggettamento ad Iva (art. 3 e 4 del d.p.r. n. 633/1972)” (paragrafo 14, sentenza n. 5078/2016).
Sul primo aspetto osserviamo innanzitutto che l’assenza di una volontà del cittadino/utente di obbligarsi a pagare una certa somma di denaro al gestore dei servizio rifiuti non costituisce di per sé un elemento decisivo per qualificare in termini di entrata tributaria il prelievo sui rifiuti. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della pluralità delle fonti delle obbligazioni giuridiche, positivizzato dall’art. 1173 del Codice Civile secondo cui le obbligazioni possono (indifferentemente) sorgere “da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
L’assenza della volontà del soggetto, elemento essenziale dei soli contratti (art. 1325 c.c.), non esclude dunque che un obbligo patrimoniale possa trovare la propria fonte in un “atto o fatto idoneo” senza dover necessariamente accedere alla categoria delle entrate di natura tributaria.
In tema di servizio rifiuti si ritiene che il fatto idoneo generativo dell’obbligo di concorrere al pagamento del servizio possa essere agevolmente identificato nell’essere titolare di una qualsiasi situazione oggettivamente suscettibile di generare rifiuti: tale situazione, invero, in forza del principio cardine in materia di corrispettivo del servizio rifiuti, ossia il principio europeo[1] «chi inquina paga», fonda la necessità di predisporre un adeguato servizio per la raccolta e gestione dei rifiuti che posso originarsi da quella situazione di mero fatto. L’irrilevanza della volontà del soggetto titolare trova invece agevolmente motivo e spiegazione nella prevalenza del bene tutelato, ossia la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana.
Non tutti gli obblighi giuridici, dunque, trovano la propria fonte in un contratto. E non tutti gli obblighi giuridici che non trovano la propria fonte in un contratto sono necessariamente e/o automaticamente dei tributi.
Non appare pertanto corretto fermarsi all’assenza di una volontà contrattuale per decretare la natura tributaria dell’obbligo di pagare una certa somma di denaro ad un determinato soggetto.
In ogni caso non si ritiene condivisibile attribuire un rilievo determinante in tema di I.v.a. all’eventuale natura tributaria di un corrispettivo e ciò sia per ragioni di carattere sistematico sia in forza del dato letterale della stessa normativa I.v.a. nazionale ed europea. Sotto il primo profilo si osserva che essendo l’I.v.a. un tributo di fonte e rilievo comunitario essa non può risentire di scelte, quale quella di qualificare in termini di tributo una certa entrata, rimesse ai legislatori nazionali degli stati membri (pena l’ingiustificato verificarsi di disparità di trattamento ai fini I.v.a. nel territorio degli vari Stati del medesimo servizio). Quanto al dato testuale, il diritto comunitario (art. 78, comma 1, lettera a, Direttiva 112/2006) ha cura di esplicitare che nella base imponibile I.v.a. devono essere compresi anche “le imposte, i dazi, le tasse [sottolineatura nostra] e i prelievi ad eccezione della stessa Iva” che accedono ad un’operazione imponibile, mentre il diritto italiano (art. 3, comma 1, primo periodo, D.P.R. n. 633/1972) afferma che sono imponibili le operazioni “verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte” [sottolineatura nostra].
Nessuna ontologica incompatibilità tra natura tributaria ed I.v.a. dunque: le norme affermano proprio l’opposto principio dell’irrilevanza ai fini I.v.a. dell’eventuale natura tributaria di un prelievo. Emblematica in tal senso la vicenda oggetto della sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2000, causa C-276/97, con la quale i Giudici di Lussemburgo hanno censurato il mancato assoggettamento ad I.v.a. dei pedaggi autostradali francesi (pur essendo gli stessi) qualificati dal diritto nazionale come entrate tributarie.
Quanto all’esimente soggettiva la Corte di Cassazione correttamente richiama l’art. 13 della direttiva 2006/112/CE che esclude dall’ambito dell’applicazione dell’I.v.a. gli enti pubblici relativamente alle sole attività ed operazioni che essi esercitano in quanto autorità pubbliche.
Il richiamo a tale disposizione, in sé corretto, risulta però errato in quanto riferito ad un’attività obiettivamente economica: la natura di un’attività, ha già avuto occasione di precisare la Corte di Giustizia europea, va “considerata di per sé, indipendentemente dai suoi scopi o risultati” (cfr. già Corte di Giustizia sentenza 12 settembre 2000, causa C-276/97, paragrafo 31) ed “il fatto che l’attività (..) consista nell’esercizio di funzioni attribuite e disciplinate dalla legge per uno scopo di interesse generale, è irrilevante” (ibidem, paragrafo 33).
Ora, il servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani costituisce una normalissima attività d’impresa come tale soggetta alla normativa europea in materia di affidamento di servizi economici di interesse generale (oggi direttiva 2014/23/UE), da svolgersi esclusivamente in una forma imprenditoriale pubblica (società in house o mista) ovvero privata a seconda delle scelte delle competenti autorità locali: nel raccogliere, trasportare, smaltire e/o trattare rifiuti non vi è alcun esercizio di poteri autoritativi, ma normale organizzazione di uomini e mezzi (i.e. azienda: art. 2555 c.c.) suscettibile di produrre un utile economico.
La natura economica del servizio di gestione dei rifiuti è peraltro espressamente riconosciuta dalla vigente normativa in materia di affidamento di servizi pubblici a rete a rilevanza economica (art. 3-bis, comma 1-bis, decreto legge 138/2011) che annovera espressamente “i servizi appartenenti al settore dei rifiuti urbani” tra quelli oggetto della sua disciplina.
Una riprova indiretta del carattere oggettivamente economico-imprenditoriale del servizio di gestione dei rifiuti può inoltre trarsi dal suo accostamento all’altro servizio pubblico di rilevanza ambientale, il servizio idrico: l’uno si occupa di raccogliere e trattare i rifiuti, l’altro di fornire acqua e depurare scarichi. Entrambi sono servizi pubblici locali in privativa comunale, entrambi sono svolti da aziende (private o pubbliche) a diretto beneficio dei cittadini/utenti, ma non per questo perdono il loro carattere economico per accedere all’esercizio di una funzione pubblica. Anzi, proprio la loro insuperabile natura economica ne impone lo svolgimento da parte di soggetti imprenditoriali e la inibisce agli enti pubblici.
Ed invero il gestore del servizio rifiuti è sempre un soggetto imprenditoriale col quale l’ente pubblico intrattiene un rapporto contrattuale: anche nell’ipotesi di società in house o società mista, il gestore è un soggetto giuridico distinto dall’ente pubblico che a questo risponde in forza ed in ragione di un contratto di servizio (e qualsiasi contratto esige l’alterità delle parti).
In materia di rifiuti (e servizio idrico), l’esercizio della funzione pubblica attiene invece alla regolamentazione del servizio mediante l’adozione di appositi regolamenti comunali o d’ambito (art. 198, comma 2, D.lgs. 152/2006), nonché alla scelta della forma di gestione, alla determinazione delle tariffe all’utenza, all’affidamento del servizio e relativo controllo (citato art. 3-bis, comma 1-bis), giammai alla sua erogazione.
La conclusione della Corte circa il carattere autoritativo dell’erogazione del servizio rifiuti, se condivisa, dovrebbe poi travolgere anche tutte le gestioni remunerate direttamente dai comuni ed indirettamente dai cittadini che invece da sempre sono pacificamente soggette ad Iva (10%): la scelta di un tipo contrattuale (appalto) rispetto ad un altro (concessione), infatti, appare assolutamente irrilevante ai fini della qualificazione di un’attività come imprenditoriale ovvero pubblica. Per quale ragione, invero, il medesimo servizio se svolto in regime di concessione si qualifica come esercizio di pubbliche funzioni e se svolto in regime di appalto invece come attività imprenditoriale? O accede all’esercizio di pubbliche funzioni in entrambi i casi o in entrambi i casi vi rimane estraneo. E perché dovrebbe accedere all’esercizio di una pubblica funzione il servizio rifiuti e non quello idrico se per entrambi vale il principio di separazione tra attività di regolazione ed attività di gestione?
E ancora. E’ noto che per le controversie concernenti la ripetizione di somme versate a titolo di I.v.a. non sussiste dubbio circa il fatto che la giurisdizione appartenga al Giudice Ordinario e non a quello Tributario (da ultimo, ordinanza Cassazione, SS.UU. n. 2064 del 28.01.2011): nel ragionamento della Suprema Corte tale conclusione poggia sulla natura necessariamente privata dei soggetti coinvolti in tali vertenze, ossia il concessionario del servizio (a seconda dei casi, consorzio-azienda, società pubblica o mista, appaltatore privato) da un lato ed il cittadino/utente dall’altro. Appare dunque evidente l’incoerenza delle opposte conclusioni: il medesimo soggetto (gestore del servizio) è qualificato privato ai fini del riparto di giurisdizione, «diventando» invece pubblico e/o esercente pubbliche funzioni se il ragionamento si sposta sull’applicazione dell’I.v.a..
Appurato che le prestazioni costituenti il servizio pubblico di gestione dei rifiuti integrano una normale attività economica, rimane da verificare se tra servizio e tariffa sussista un rapporto giuridico «sufficiente» ai fini I.v.a.
Tale presupposto sussiste appieno e va ricercato non tanto in un (probabilmente o comunque spesso) inesistente contratto col cittadino-utente, bensì nel contratto di concessione stipulato col comune o, più in generale, con l’autorità responsabile dell’erogazione del servizio pubblico in parola su un dato territorio: il titolo in forza del quale il gestore emette la fattura T.I.A. ai cittadini/utenti infatti è rappresentato proprio da questo contratto di concessione.
Merita invero por mente al fatto che i servizi pubblici locali – quali, oltre al servizio rifiuti, anche il servizio idrico, il servizio di trasporto locale, il verde pubblico ecc. – danno tipicamente vita ad un rapporto giuridico trilaterale: i) ente pubblico titolare del servizio (committente), ii) gestore e iii) cittadini-utenti (beneficiari diretti). Ferma la struttura trilaterale del rapporto giuridico, l’ente pubblico può scegliere se utilizzare per la sua erogazione lo strumento giuridico del contratto d’appalto ovvero del contratto di concessione: tali contratti, tipizzati e disciplinati dal diritto europeo[2] e nazionale[3], presentano la medesima causa giuridica (servizio contro prezzo) differenziandosi solo per il soggetto tenuto al pagamento (ente pubblico committente nel caso di appalto, cittadino-utente nel caso di concessione) con una conseguente diversa allocazione del rischio operativo del pagamento del servizio (comune ovvero gestore).
L’onerosità della prestazione, pertanto, sussiste sia nel caso di fatturazione del gestore al committente (contratto di appalto in un regime di tassa: oggi Ta.Ri.) sia nel caso di fatturazione del gestore al cittadino/utente (contratto di concessione in un regime di corrispettivo patrimoniale: oggi Ta.Ri.C.): in entrambi i casi infatti vi è una prestazione di servizi remunerata.
Su tale premessa, quand’anche il corrispettivo applicato dal gestore avesse natura tributaria, come sembra ritenere il nostro Supremo Giudice nelle sentenza de qua, rimarrebbe comunque salva la natura onerosa del servizio: la qualificazione in termini di tributo o meno di una certa entrata, invero, è e rimane una questione di diritto interno (non europeo).
Riteniamo altresì meritevole di riflessione il tema della corrispondenza «minima» necessaria tra valore del servizio ed ammontare del suo corrispettivo: molti precedenti giurisprudenziali, invero, concludono per l’inapplicabilità dell’I.v.a. non riscontrando una corrispondenza sufficiente tra servizio erogato e tariffa richiesta al cittadino.
La Corte di Giustizia ha avuto recentemente occasione di prendere espressamente posizione anche su tale questione: nella causa C-174/14, definita con la sentenza 29 ottobre 2015 (peraltro citata dalla stessa pronuncia che qui si commenta), si poneva il dubbio se un’attività di interesse generale (sanità pubblica) svolta da una società pubblica (Suadaçor) e remunerata mediante una “compartecipazione finanziaria” determinata forfettariamente fosse o meno assoggettabile ad I.v.a.. Ed i Giudici di Lussemburgo hanno affermato che: “36. In considerazione della natura permanente e continuativa delle prestazioni di programmazione e gestione fornite dalla Suadaçor, la circostanza che tale indennizzo non sia fissato in funzioni di prestazioni personalizzate, bensì in modo forfettario e su una base annua [evidenziazione nostra] diretta a coprire le spese di funzionamento di tale società non è di per sé tale da compromettere il nesso diretto esistente tra prestazione di servizi effettuata e il corrispettivo ricevuto, il cui importo è stabilito in anticipo e secondo criteri chiaramente individuati (v. in tal senso, sentenza Le Rayon D’Or, C-151/13, EU:C:2014:185 punti 36 e 37).”
Ora, se si considera che anche il servizio di gestione dei rifiuti è un servizio di interesse generale e che anche la tariffa rifiuti – abbia essa natura tributaria ovvero patrimoniale – è “commisurata ad anno solare”[4], “deve assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio” sulla base del “piano finanziario del servizio redatto dal soggetto che svolge il servizio stesso ed approvato dal consiglio comunale o da altra autorità competente a norma delle leggi vigenti in materia”, non si vede come tali affermazioni non possano rilevare anche in tema di corrispettivo del servizio rifiuti.
Un ulteriore spunto di riflessione può trarsi anche dalle pronunce europee, anch’esse citate dalla stessa Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, in tema di tassa (presuntiva) sui rifiuti: la Corte di Giustizia, infatti, è stata chiamata due volte, nel 2008 e nel 2013, a pronunciarsi sulla conformità al principio europeo «chi inquina paga» della nostra Ta.r.su.. In entrambi tali occasioni veniva invero posto in dubbio che un prelievo quantificato in via meramente presuntiva potesse dirsi conforme a tale principio che, come noto, richiede una ripartizione dei costi del servizio rifiuti basata sul concorso di ciascuno alla loro produzione.
I Giudici di Lussemburgo hanno invece ritenuto rispettato tale principio anche in presenza di una tassa determinata con criteri meramente presuntivi “in quanto questi due criteri [ossia, superficie occupata e tipologia di attività svolta] sono in grado di influenzare direttamente l’importo dei costi” (sentenza 16 luglio 2009, causa C-254/08, Futura Immobiliare). Il medesimo orientamento è stato ribadito dalla Corte di Giustizia con la più recente sentenza 18 dicembre 2014, causa C-551/13, Setar.
Un legame diretto tra servizio e suo corrispettivo, ancorché tributario e presuntivo, è stato dunque già visto ed affermato dalla Corte di Giustizia. Né si ravvisano elementi per supportare una conclusione diversa nel tema che qui interessa: se sussiste un legame sufficiente per il rispetto del principio «chi inquina paga» come può lo stesso legame dirsi insufficiente ai fini I.v.a.?
Le riflessioni che si sono venute illustrando, se condivise, evidenziano l’erroneità o quantomeno l’incompletezza di molti ragionamenti contenuti nella sentenza in commento: un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 del Trattato, pur proposto dalla società ricorrente, avrebbe potuto dirimere definitivamente, in un senso o nell’altro, l’oggettivamente complessa ed articolata (perché involve aspetti di diritto ambientale, di diritto amministrativo e di diritto tributario, tutti di fonte comunitaria) questione dell’I.v.a. sulla tariffa rifiuti.
Importante infine, onde evitare fuorvianti generalizzazioni, mettere in luce come anche l’ultimo pronunciamento della Corte di Cassazione in tema di I.v.a. sulla tariffa rifiuti abbia una portata limitata alla TIA 1 e/o ad una tariffa rifiuti ad essa analoga: i Giudici hanno infatti avuto cura di precisare espressamente che l’aliquota agevola del 10% ai sensi del numero 127-sexiesdecies tabella A parte III del d.p.r. 633/1972 è applicabile “nei casi in cui le prestazioni in esame vengano svolte «con corrispettivo», elemento assente, per quanto sopra ritenuto, nel caso in esame” (paragrafo 20 della sentenza in commento).
L’espressione utilizzata (“con corrispettivo”) rimanda immediatamente, quantomeno per gli addetti ai lavori, alla tariffa rifiuti corrispettiva prevista dal nostro legislatore come prelievo di natura patrimoniale alternativo al tributo sui rifiuti negli ultimi due interventi in materia (Ta.r.e.s. e Ta.Ri.).
Trattandosi di materia molto tecnica e, comunque, di una realtà ancora poco diffusa sul territorio nazionale[5], merita ricordare che le entrate comunali possono essere di tre tipi – tributarie, patrimoniali pubbliche e patrimoniali private – e che i comuni godono di potestà regolamentare in ordine alle proprie entrate (art. 52 del d.lgs. n. 446/1997): nel rispetto della normativa statale e della riserva costituzionale in materia di imposte, i comuni possono dunque scegliere che natura attribuire alle proprie entrate.
Per i rifiuti l’alternativa si pone tra un prelievo di natura tradizionalmente tributaria (oggi Ta.Ri) ed un prelievo di natura patrimoniale pubblica (oggi Ta.Ri.C.): quest’ultima opzione è però espressamente subordinata all’adozione di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico. Caratteristica fondamentale della tariffa rifiuti corrispettiva è infatti quella d’essere commisurata al servizio erogato a ciascun cittadino/utente in ragione di dati concreti e reali circa i rifiuti effettivamente conferiti, laddove invece la T.I.A. sottoposta al giudizio del nostro supremo Giudice era (legittimamente) determinata sulla base di presunzioni astratte dei rifiuti prodotti.
Tariffa rifiuti e tariffa rifiuti corrispettiva, pur (oggi) simili nella denominazione, non sono dunque due species o varianti dello stesso tipo di prelievo ma due prelievi ontologicamente e strutturalmente differenti, appartenenti a due distinte (ed alternative) tipologie di entrate pubbliche: la prima ai tributi locali, la seconda alle entrate patrimoniali di diritto pubblico.
Per tale ragione la questione dell’I.v.a. sulla tariffa rifiuti corrispettiva dovrà porsi in maniera autonoma e, sotto vari profili, radicalmente diversa rispetto ai ragionamenti svolti per la tariffa (o tassa) di tipo presuntivo.
Note:
[1] Tale principio è sancito dall’art. 174, comma 2, del Trattato e ripetuto nelle Direttive sui rifiuti (ieri art. 15 della Direttiva 2006/12/CE ed oggi art. 14 della Direttiva 2008/98/CE).
[2] Così, sono definiti «appalti pubblici» i “contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi” (art. 2, paragrafo 1, numero 5, Direttiva 2014/24/UE), e la «concessione di servizi» è definita come “un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi (..), ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo.” (art. 3, paragrafo 1, lettera b), della Direttiva 2014/23/UE).
[3] Cfr. art. 3, comma 1, lettere ii) e vv), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Nuovo codice contratti pubblici).
[4] Oggi, (nell’ordine) art. 1, commi 650, 654 e 683, legge 27 dicembre 2013, n. 147 in materia di Ta.ri. e Tariffa corrispettiva. Analoghe disposizioni erano previste anche per la TIA 1 dall’art. 49 del D.lgs. n. 22/1997 e dpr n. 158/1999.
[5] Ad oggi si stima che in Italia siano in regime di tariffa puntuale o corrispettiva poco meno di due milioni di cittadini.