La riforma della Costituzione, che sarà a breve sottoposta al vaglio di un referendum, sta di fatto dividendo e sarà sempre più così il sistema politico in due, pro e contro Renzi. Con il Premier che cavalca questa divisione ribadendo il proprio “giocarsi la faccia” di fronte a questo voto nel referendum confermativo.
Ma non è solo la politica a muoversi per il si o per il no, un intensa campagna a livello sociale nei prossimi mesi consentirà inevitabilmente di approfondire le questioni di merito, al di la della contesa partitica. Molto interessante, in quest’ottica, è quanto si sta sviluppando in ambito accademico con prese di posizione che consentono di focalizzare i contenuti e gli aspetti dispositivi della riforma su cui gli italiani saranno chiamati ad esprimersi nel referendum che si terrà ad ottobre.
Su L’Unità di ieri è stata, ad esempio, pubblicata la prima parte dell’intervento di Roberto Bin (docente di diritto costituzionale a Ferrara) su astrid-online.it con cui replica all’intervento di 56 costituzionalisti pubblica lo scorso 22 aprile.
“In questa legislatura – scrive Bin – si è rivelata a tutti l’urgenza di uscire da un sistema di bicameralismo che non è affatto quello voluto dai nostri costituenti” e “non è affatto vero che le costituzioni e le loro modifiche siano sempre il frutto di larghe intese, “di un consenso maturato fra le forze politiche”; all’opposto, nascono spesso in momenti di grave crisi istituzionale, in cui le maggioranze hanno difficoltà di formarsi e a governare, ed anche ad approvare l’introduzione di modifiche costituzionali belle e condivise”
Mentre secondo i 56 costituzionalisti “La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento”.
Per Bin, indubbiamente “modificare il Senato non basta a risanare la vita istituzionale del Paese, è certo: ma senza riformarlo il risanamento è impossibile”.
Un Senato che secondo il manifesto dei 56 non raggiungerebbe l’obiettivo che il legislatore si propone: “l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche”
Sempre sul Corriere della Sera di ieri è invece intervenuto Angelo Panebianco che distingue la platea dei “critici” in 3 gruppi: “C’è il gruppo dei contrari, sempre e comunque”, “c’è poi il gruppo di quelli a cui non importa molto della Costituzione, quelli che vogliono «fare fuori» Renzi”. Infine esiste un terzo gruppo “composto dai perfezionisti, quelli favorevoli, in linea di principio, a riformare la Costituzione ma la cui contrarietà dipende dall’esistenza di sbavature e difetti vari del testo approvato dal Parlamento”.
“Con i primi due gruppi, che chiameremo gli «irriducibili», è – secondo Panebianco – inutile discutere”. “Il gruppo con cui vale la pena di discutere è quello dei perfezionisti”, E “ai perfezionisti occorre dire che, sì, la riforma ha qualche difetto ma che questo è inevitabile, si verifica sempre quando un « comitato» in cui sono presenti tante teste e tante sensibilità diverse (un Parlamento è proprio questo) deve deliberare su un provvedimento complesso. Le mediazioni parlamentari, inevitabilmente, «sporcano», almeno un po’, qualsiasi progetto, anche quello che in origine sembrava ottimo, perfetto”.
Solo una leggenda – e qui anche Panebianco sembra rispondere indirettamente ai 56 – ha fatto credere ad alcuni che la stessa sorte non fosse toccata alla Costituzione vigente quando venne confezionata dall’apposito comitato (la Costituente)”. In realtà secondo l’editorialista del Corriere “non c’è nessuna «democrazia autoritaria» alle porte. Il governo sarà un po’ più forte (e un po’ più stabile ed efficiente) ma continuerà ad essere bilanciato da contropoteri che esistono oggi ma non esistevano agli albori della Repubblica: le istituzioni europee, la Corte costituzionale, le Regioni. Si rimedierà però a due gravi errori: il bicameralismo paritetico, appunto, che ha reso sempre debole e incerta la navigazione dei governi, e gli effetti della sciagurata riforma del Titolo V che spostò dal governo centrale alle Regioni poteri e competenze che non avrebbero mai dovuto prendere quella strada e che mise i governi nella impossibilità di attuare politiche nazionali in alcuni ambiti cruciali”. Insomma “non c’è alcun progetto autoritario. E Renzi non è Erdogan. Ma il buon senso – conclude Panebianco – è una merce rara. Soprattutto in politica”.