Le periferie, con tutte le criticità annesse e connesse, rappresentano un tema che sta acquistando un peso specifico crescente all’interno dell’agenda politica, governo permettendo (se costituito). Attualmente, prevalgono in queste realtà urbane ai margini delle metropoli e delle città di media grandezza aspetti indubbiamente negativi: degrado ambientale, marginalità, esclusione sociale, delinquenza diffusa e criminalità organizzata. In altre parole, le periferie sono uno dei grandi problemi del Paese, arduo da affrontare e difficile da gestire. Veri e propri ghetti in cui la sicurezza e la convivenza civile sono fortemente minacciate e, comunque, a rischio.
Il centro delle città, invece, è l’esatto contrario: ospita i palazzi del potere (istituzioni pubbliche, aziende, uffici amministrativi, residenze di lusso per i nuovi e i vecchi ricchi). La forma della struttura urbana, dunque, riflette l’assetto dei rapporti fra le classi: i ceti dominati e dirigenti locati nel cuore delle città, i settori subalterni esternalizzati/deportati nelle periferie. Questo è, in sintesi, l’Occidente capitalistico. Si dirà: “Tutto il mondo è Paese”. Ma l’Oriente è lo stesso? Non esattamente, anzi dalle esperienze urbane realizzate in quella parte del pianeta possono venire suggerimenti e indicazioni utili per salvare/migliorare le nostre periferie. Rilevante in tal senso la realtà giapponese, come testimoniano parecchi viaggiatori europei che hanno visitato, e anche vissuto per lungo tempo, nel Sol Levante.
Isolato e chiuso in sé stesso fino al 1866 sotto il dominio degli Shogun, il Giappone non è stato contagiato dall’influenza urbanistica occidentale. In effetti, storicamente le città europee si sono sviluppate e strutturate intorno a un centro costituito da una piazza principale – luogo di adunanza popolare, metafora stessa della democrazia – da un castello o da un palazzo ducale – sedi del potere costituito – e le aree intermedie – insediamenti residenziali della piccola e media borghesia. Nella fascia esterna, invece, hanno trovato ricovero (si fa per dire) il proletariato e i segmenti marginali del lumpenproletariat. Un modello urbanistico, dunque, fondato sulla contrapposizione rigida Centro/Periferie che, col crescere della popolazione residente, anche per effetto delle massicce migrazioni e dello spopolamento delle campagne, ha generato il fenomeno della cementificazione, spesso selvaggia. Si veda, ad esempio, il “sacco di Roma degli anni 60’. Ben diversa, invece, la dinamica dello sviluppo urbano nipponico. Da notare, in primo luogo, la prevalenza del legno nelle costruzioni (anche per templi e fortezze), dovuta essenzialmente a due fattori:
– la tradizione shintoista-buddista, basata sulla simbiosi reciproca uomo-natura, sull’armonia e non sull’ostilità;
– la frequenza dei terremoti che imponeva edifici leggeri.
La casa giapponese, anche ai giorni nostri, è costruita con materiali leggeri e facilmente smontabili, che la rendono quasi completamente riciclabile. Questa specificità edilizia, proiettata sulla dimensione urbana complessiva, ha condotto a un modello di città flessibile e particolarmente ricettiva verso i cambiamenti socio-economici che non ha partorito la contraddizione Centro-periferie come la conosciamo nel Vecchio Continente. Non a caso, Il Centro, inteso come punto di aggregazione e potere, non è concentrato, fisso, bensì diffuso, mobile su tutta la pianta della città: le attività produttive, amministrative e di servizio sono sparse sull’intero territorio urbano a macchia di leopardo. Paradossalmente, sono le stazioni, non le piazze, i luoghi dinamici di aggregazione popolare. Una dimensione simile, non identica, la possiamo ritrovare nella metropoli policentrica di Los Angeles, strutturata intorno a ben 85 quartieri, dotati ciascuno di un proprio autonomo cuore pulsante.
Quali indicazioni possiamo ricavare da questi modelli di relativo successo? Anzitutto, è ipotizzabile un’azione programmata e coordinata tesa a estendere il perimetro virtuale del centro, soprattutto nelle aree metropolitane, cogliendo così la proposta della “ricucitura” suggerita da Renzo Piano. Una prospettiva da costruire in progress, magari dislocando edifici con forte valore simbolico, come tribunali, municipi, uffici amministrativi, fuori dai tradizionali confini del centro cittadino. Contestualmente, occorre lavorare attraverso la cultura alla rivitalizzazione delle aree periferiche degradate, organizzando eventi, mostre, spettacoli, nelle zone storicamente escluse. Un processo, questo, che potrebbe essere fortemente facilitato dalla rivoluzione digitale in corso, che annulla la distanza spazio-temporale fra i luoghi e gli oggetti, approcciando la dimensione dell’atopia. Seguendo questi percorsi, forse l’avvento delle smart city, oggi decantato e auspicato da tutti, potrà divenire una realtà materiale consolidata e non soltanto una chimera virtuale mai completamente raggiunta.