L’universo oscuro e polimorfo della malavita internazionale sforna continuamente sorprese. Si scoprono sempre nuovi gruppi criminali che rivaleggiano con altre organizzazioni per ferocia, potenza e indomabile aggressività. Non si sa a chi dare la palma del “Male assoluto”. Sono più cattivi i Los Zetas messicani o i tagliagole del Daesh, bisogna temere di più la ‘ndrangheta o i gangster salvadoregni della Maratrucha 13? La gara è aperta, non certo quella della solidarietà, e si arricchisce quotidianamente di nuovi candidati che aspirano ad aggiudicarsi la vetta della classifica delle più letali creature viventi. L’ultima formazione malavitosa di cui si abbia notizia, qui nel vecchio Continente, alberga, guarda caso, nelle Americhe. Si tratta della “Mexican Mafia”, meglio nota come “Eme”. Lo spunto per parlarne ce lo dà l’FBI che, in una vasta operazione con 800 agenti, ha arrestato recentemente 38 membri della “Big Hazard”, gang di Los Angeles multigenerazionale, attiva dagli anni Quaranta, che ha legami stretti proprio con la “Mexican Mafia”. Quest’ultima è profondamente radicata nel sistema carcerario californiano. Dall’interno del quale controlla il traffico di droga e coordina le attività delle gang latine in strada.
Direttamente connessa ai grandi cartelli a sud del Rio Grande, la Eme è in assoluto l’organizzazione più potente in territorio gringo ed egemonizza il traffico di metanfetamine. Nessuna la supera per violenza e per numero di affiliati. La sua “intelligence” è fenomenale, sa tutto in breve tempo e risolve i problemi abilmente e velocemente.
Il dato sconsolante è che ormai la cultura della gang abbia permeato la comunità latina. Siamo alla quinta generazione di gangster. Per non parlare dei simpatizzanti, che si trovano nei posti di lavoro più insospettabili. Pur essendo rinchiusi in carcere, i capi passano le istruzioni a migliaia di seguaci. Ordinano chi uccidere, da chi riscuotere soldi. All’interno della prigione, nessuno viene toccato senza il loro permesso. Forse, è sulla base di tali fenomeni che trova consenso la proposta del neo presidente Trump di espellere 2 milioni di immigrati con la fedina penale sporca.
Fatto sta che, in attesa dell’esodo forzato, le gang ispaniche sudcaliforniane riunite sotto un solo nome (i “Southsiders”), spadroneggiano nei territori sotto il loro controllo. Sono superorganizzati e vengono comandati da un cervello centrale, legato alla “Mexican Mafia”.
Operazioni di polizia e arresti si susseguono senza soluzione di continuità. Incidono solo superficialmente sulle strutture illegali che, dopo ogni batosta, si riorganizzano e si rafforzano. Le alimenta un humus culturale deviato che si tramanda di padre in figlio all’interno delle comunità latine. I più giovani emulano i padri, gli zii, i fratelli, perché nei quartieri in cui sono cresciuti la prigione è considerata un rito di passaggio e diventare un gangster è un’opportunità di carriera, oltre che un vanto. Nei ghetti di Los Angeles, chi è stato in galera viene ammirato e rispettato. I dollari ricavati dal narcotraffico rappresentano l’indispensabile viatico per incarnare il sogno americano in mexican style. Poco male, se il prezzo è uccidere e/o essere ingabbiati… “Todo por la plata”, proclamava Pablo Escobar.