Funzionalità, condivisione, circolarità, disintermediazione, i tratti distintivi delle nuove forme di cooperazione sociale produttiva che si stanno affermando, nelle pieghe del mercato mondiale, ai quattro angoli del pianeta, e non soltanto nelle aree più avanzate. Questo insieme di modalità di scambio e di consumo è stato battezzato “Sharing economy”. Da qualche tempo è divenuto oggetto di indagini e di riflessioni da parte di esperti di vario orientamento. Ovviamente, il laboratorio d’avanguardia dell’innovazione a tutti i livelli restano gli Stati Uniti, anche per questo fenomeno cresciuto in sordina dentro la crisi e che oggi si impone all’attenzione dei decisori di politica economica sulle due sponde dell’Atlantico come possibile risposta ai limiti e ai fallimenti dei paradigmi tradizionali. Si è ormai capito, anche se molti si attardano sulle vetuste identità del secolo scorso, che “pubblico e privato” sono le due facce di una stessa logora medaglia. Entrambe inadeguate a fronteggiare con successo le sfide del nostro tempo, essendo incapaci di costruire un futuro di effettivo progresso in grado di coniugare armonicamente sviluppo e ambiente. E dovremmo averlo capito soprattutto noi, europei e italiani, che non riusciamo ancora a venir fuori veramente dalla stagnazione. Qualche decimale positivo non fa primavera…
Torniamo, però, all’osservatorio americano che può fornirci indicazioni utili per la comprensione della Sharing economy e la corretta valutazione dei suoi impatti sociali e culturali. Scopriremo che sul medesimo fenomeno si misurano interpretazioni di segno diametralmente opposto, a dimostrazione che la questione è aperta. Un banco di prova per il pensiero critico.
L’Oxford English Dictionary – ci racconta Federico Rampini (L’Età del Caos, pp. 310-13) – alla voce “Sharing economy” riporta la seguente definizione: “Un sistema dove i beni e i servizi non occorre possederli, li si usa solo quando se ne ha bisogno, pagando in proporzione”. Dunque – come ha anticipato Jeremy Rifkin – il principio dell’”accesso” prevale su quello della “proprietà”. Lo conferma anche Aron Sundararajan –eminente studioso della New York University: “Siamo di fronte a un nuovo tipo di capitalismo, dalla proprietà tradizionale delle grandi marche di un tempo si passa a un sistema di accesso su basi paritarie”. Lo pensano pure i cittadini americani. Secondo un’indagine della PwC us Consumer Intelligence, il 57% degli adulti ritiene che “l’accesso sia la nuova forma di proprietà” e per questa ragione il 19% dichiara di aver praticato la Sharing economy direttamente, soprattutto nella fascia di età fra i 18 e i 24 anni. Inoltre, l’86% dei consumatori pensa che i “servizi in condivisione rendano la vita meno cara”, mentre il 68% ritiene che attraverso queste forme di cooperazione si “costruiscano comunità più coese”. Ecco perché nelle conclusioni, lo studio della PwC us Consumer Intelligence perviene a una definizione aggiornata di Sharing economy: “Ecosistema emergente che monetizza delle capacità produttive sottoutilizzate, o privilegia il prestito, l’affitto, lo spezzettamento di microcompetenze, costruito sulla fiducia reciproca e la collaborazione”. Paul Mason – commentatore economico del “The Guardian” – si spinge oltre: “E’ l’anticamera del comunismo digitale”. Stiamo forse assistendo all’emergere di una modello più democratico ed efficace di tutela/promozione del “Bene Comune”?
Non tutti concordano con questa visione ottimistica. Robert Reich – esponente della sinistra americana, docente all’Università di Berkeley – è convinto, invece, che la Sharing economy rappresenti un capitolo del più vasto processo di evoluzione del sistema capitalistico globale verso derive segnate dall’ipersfruttamento e dalla crescita delle disuguaglianze. Non senza sarcasmo, la stigmatizza come “economia della condivisione delle briciole”. La questione è sul tappeto – ripetiamo – e merita approfondimenti. Non a caso, il secondo numero del magazine del Giornale dei Comuni dal titolo “Una nuvola per amica. Cloud e Sharing economy: l’innovazione negli enti locali” – appena uscito – focalizza proprio questi temi.
Apriamo il dibattito, si diceva una volta.