La globalizzazione ha trasformato il pianeta liberalizzando i mercati, la circolazione dei capitali, delle idee e delle informazioni, ma anche delle persone. La produzione mondiale è cresciuta e diverse aree sono uscite dall’arretratezza; l’innovazione tecnico-scientifica ha messo il turbo; gli scambi commerciali si sono moltiplicati. Ma il mondo è migliorato? La risposta non è scontata. Dopo una prima fase sostanzialmente positiva, è subentrata la crisi: I mercati finanziari sono scoppiati; la recessione ha travolto le economie; la povertà è tornata a essere condizione diffusa; la disoccupazione continua a minare la coesione sociale dei Paesi avanzati, mentre è sinonimo di tragedia in quelli c.d in via di sviluppo; la forbice fra ricchi e poveri, fra potenti e impotenti, si è allargata a dismisura. Siamo entrati nella stagione del Caos, dei conflitti emergenti, della guerra asimmetrica, del jihadismo stragista. Prevalgono gli egoismi e i nazionalismi, la paura dell’”altro”, la ripulsa del diverso. La “società aperta” – di popperiana memoria – si sta chiudendo, recintata da muri e da barriere di filo spinato. La pace è divenuto uno slogan vuoto e logoro, al più un lodevole miraggio. In altre parole, il lato oscuro della globalizzazione ha preso il sopravvento sulla parte luminosa e progressiva: alienazioni e nuove sofferenze si sono affacciate sulla scena planetaria, senza però soppiantare le antiche piaghe, che permangono e si incancreniscono. Una per tutte, la schiavitù. Grazie al rapporto “2016 Global Slavery Index” della “Walk Free Foundation” – iniziativa lanciata nel 2012 dal magnate australiano delle miniere Andrew Forrest per sensibilizzare opinione pubblica e governi – abbiamo scoperto che attualmente più di 45 milioni di persone nel mondo vivono in condizioni di “moderna schiavitù”, di cui due terzi nella zona dell’Asia-Pacifico. Un flagello ben più grave e diffuso di quanto s’immaginasse. Traffico di persone, prostituzione coatta, lavori forzati, soldati bambino, minori utilizzati per il traffico di stupefacenti… sono varie e si moltiplicano le forme di questa estrema condizione di disagio. Quali le cause? Violenza, indigenza, sfruttamento, discriminazione ed esclusione sociale. L’indagine ha interessato 167 Paesi e si è basata su 42.000 interviste in 53 lingue. Questa edizione registra un incremento del numero di persone “asservite” del 28% rispetto a due anni prima. Incremento da attribuire a migliori modalità nella raccolta dei dati, piuttosto che a un peggioramento della situazione? Chissà! Comunque è difficile stabilirlo.
L’India è il Paese con il maggior numero d’individui in stato di schiavitù (18,35 milione), ma è in Corea del Nord la percentuale più alta rispetto alla popolazione (4,37%) e la risposta del governo più debole. Dopo l’India ci sono la Cina (3,39 milioni), il Pakistan (2,13 milioni), il Bangladesh (1,53 milioni) e l’Uzbekistan (1,23 milioni). In termini percentuali, dietro alla Corea del Nord figurano l’Uzbekistan (3,97% della popolazione) e la Cambogia (1,65%).
Il rapporto si conclude con una vera e propria requisitoria nei confronti di alcuni Governi come Iran, Cina e Hong Kong, che non fanno abbastanza per contrastare il fenomeno. In totale sono 124 i Paesi nei quali il traffico di esseri umani è un reato, conformemente al Protocollo Onu del 2003, che mira a prevenire, reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare donne e bambini. 96 Paesi hanno adottato piani d’azione per coordinare la risposta delle autorità. Sulla loro efficacia il giudizio è sospeso.