I conflitti si moltiplicano o si arenano; le disuguaglianze sociali stanno crescendo e i diritti regrediscono. In questo contesto, la biodiversità è in crisi, e le conseguenze del cambiamento climatico (cicloni, uragani, inondazioni, incendi boschivi, siccità) sono forti e generano, tra l’altro, migranti climatici. Il buon senso richiederebbe zero fossili e 100% rinnovabili. Ma si giungerà – un giorno – a questo orizzonte (condiviso)? L’Accordo di Parigi – entrato in vigore il 4 novembre 2016 – è ancora lontano dall’essere operativo. Ora, dopo 12 giorni di lavori, la 22esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 22 di Marrakech) si è conclusa. E – cosa questa positiva – sull’ambiente e sul “climate change”, c’è appena stata un’apertura di Donald Trump, neo-presidente degli USA. L’amministrazione Obama ha contribuito in maniera decisiva all’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Ed è riuscita – in parallelo – a impegnare la Cina a ridurre gradualmente le emissioni inquinanti. Ora – dopo una campagna elettorale in cui ha sostenuto che il cambiamento climatico è “una bufala” e un’“invenzione della Cina per danneggiare gli USA – il 22 novembre 2016 – Trump, benché appoggiato dalla lobby dei petrolieri, ha dichiarato: “esiste qualche collegamento tra il comportamento degli uomini e le condizioni ambientali (…) l’aria pulita è d’importanza vitale”. Pare – quindi – non confermata la decisione della nuova Amministrazione Trump di abbandonare l’Accordo di Parigi (anche se permangono dubbi sul taglio degli impegni finanziari assunti da Obama a sostegno dell’azione climatica nei Paesi in via di sviluppo).
Centinaie di imprese – tra cui Nike,Ikea,Starbucks, Virgin, Intel; Allianz, Ebay, Hilton, Oreal, Levis Strauu, Gap – hanno intanto varato un Comunicato, diretto al Presidente-eletto Trump, che – riaffermata l’irreversibilità dell’Accordo di Parigi – precisa : “vogliamo che l’economia americana sia efficiente dal punto di vista energetico e alimentata da fonti low-carbon (…) Un fallimento in questo senso porrebbe la nostra economia a rischio, mentre azioni corrette oggi creeranno posti di lavoro accrescendo la competitività americana. Ci impegniamo a compiere la nostra parte..”. D’altra parte, a Marrakech, John Kerry lo ha precisato con forza: “Non possiamo usare una mano per contrastare i cambiamenti climatici mentre con l’altra allunghiamo grossi assegni all’industria fossile. Non ha senso, è un suicidio”.
Torniamo alla COP22, che si è svolta in Africa, uno dei continenti più colpiti dai cambiamenti climatici. Sul tavolo c’erano temi importanti: la trasparenza nei criteri di valutazione degli NDC-Piani nazionali di taglio alle emissioni (i cui impegni volontari restano insufficienti per garantire gli obiettivi di contenimento dell’aumento delle temperature); la road map per lo stanziamento dei 100 miliardi di dollari da qui al 2020 per il Climate Green Fund (obiettivo ancora lontano); la messa in opera del Comitato incaricato di facilitare l’implementazione dell’accordo, ecc. Assente, invece, il dibattito sulla necessità di un carattere vincolante, dell’Accordo, sostanziato dalla previsione di misure di controllo e sanzione.
I movimenti sociali (marocchini, magrebini, africani e internazionali) – riuniti a Marrakech (nelle cui strade erano visibili enormi cartelli con la scritta “ACT”, agire, nelle principali lingue del mondo) – hanno riaffermato la loro determinazione a costruire e difendere la giustizia climatica, e in particolare, ad agire per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, secondo l’impegno assunto a Parigi da tutti i capi di stato e di governo. Nei corso dei lavori, alle iniziali negoziazioni tecniche degli sherpa è poi subentrata la politica, con l’arrivo di capi di Stato e delle delegazioni governative: numerosi i leader africani e dell’alleanza delle isole del Pacifico. Pochi invece i capi di Stato giunti dal resto del mondo (di cui non pochi – ivi incluso l’Italia – continuano a promuovere politiche in antitesi alla riduzione di emissione dei gas serra.). Da Marrakech arriva – comunque – un segnale forte e chiaro: da Parigi non si torna indietro, la sua direzione di marcia è irreversibile. L’Accordo di Parigi (Cop 21 del 2015) , pur rimanendo non vincolante, è quantomeno irreversibile.
Una drastica riduzione delle emissioni e l’adeguamento al cambiamento climatico – già in atto – sono essenziali per la sicurezza e salute del mondo, e per la prosperità. Con la COP22 si è deciso di fare ogni sforzo perché nei prossimi due anni si lavori per rimanere entro 1,5% C di aumento medio della temperatura globale rispetto all’era preindustriale. E – per definire la governance dell’Accordo entro la COP24 del 2018 (anno per cui è prevista la prima revisione degli impegni assunti a Parigi) – è stato adottato un Programma di lavoro con un calendario di verifiche intermedie: un percorso per aumentare le ambizioni e aprire al strada a stringenti impegni nazionali, in linea con le indicazioni della comunità scientifica e dell’equità. E’ stato concordato che alla COP 24 – del dicembre 2018 – si potranno rivedere i primi impegni di riduzione delle emissioni, incrementandoli in coerenza con gli obiettivi di Parigi. La definizione di un regolamento su come i singoli Stati abbasseranno le emissioni di CO2, perseguendo le azioni di mitigazione, è rinviato a quella stessa data (2018).
Alla COP 24 Sono stati quindi rinviati tutti i principali nodi dell’Accordo di Parigi: la sua ratifica e attuazione in tutti gli Stati; una prima verifica delle azioni intraprese per raggiungere gli obiettivi che ci si è dati; predisposizione del Fondo verde per i Paesi in via di sviluppo, confermato di 100 miliardi di dollari entro il 2020 (pur considerandoli insufficienti); azioni in tema di sicurezza alimentare ecc. A questo punto – ci si chiede oramai se l’Europa saprà mettere in campo la sua leadership per arrivare a questo importante appuntamento politico del 2018 con impegni di riduzione al 2030 ben più ambiziosi dell’attuale 40% e con una strategia di decarbonizzazione della sua economia in grado di raggiungere zero emissioni entro il 2050 (servirebbe un suo segnale in tal senso).
A Marrakech, l’Europa ha ribadito di essere impegnata con forza a costruire – insieme alla Cina – una “Coalizione di ambiziosi” in grado di dare gambe all’Accordo di Parigi anche senza gli Stati Uniti. Ma il cosiddetto “Pacchetto di Inverno” – di riforma della politica energetica europea – della Commissione europea, da adottare il 30 novembre (tra le cui proposte ci sono la revisione delle direttive sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica, e nuove regole per il mercato dell’elettricità) non sembra andare in questa direzione… La Germania rimane l’unico baluardo delle rinnovabili in Europa, ponendosi al sesto posto a livello mondiale e “occupando 355.000 addetti, che corrispondono ai posti di lavoro combinati di Francia Italia e Regno Unito. Il settore delle rinnovabili in Italia si è ridotto ad appena 92.000 addetti – facendosi quasi doppiare dalla Francia che mantiene 170.000 occupati – grazie ad una forte riduzione (86%) degli ultimi 3 anni degli investimenti che nel 2015 sono stati appena 2 miliardi di dollari rispetto ai 15 miliardi del 2012” (cfr. Legambiente). Non manca quindi chi , giustamente, sottolinei una forte contraddizione tra le dichiarazioni dell’UE e l’azione concreta: specchio delle sue divisioni interne.
Complessivamente, possiamo dire che i negoziati di Marrakech, nonostante alcuni annunci positivi, scontano due lacune in materia di finanziamento (in particolare per quanto riguarda il sostegno finanziario dei paesi industrializzati, ed emergenti, all’azione climatica dei paesi poveri) e di adattamento. Segnali incoraggianti arrivano – invece – dalla Cina e da altri paesi che hanno intensificato la loro cooperazione con i paesi del Sud del mondo. E importante è l’annuncio del Climate vulnerable Forum (un gruppo di circa 50 Paesi che raccoglie tutti i paesi poveri più esposti ai cambiamenti climatici in corso) che si impegna a rivedere e migliorare gli obiettivi attuali in materia di taglio di emissioni nel 2018, con l’obiettivo di raggiungere il 100% di energie rinnovabili entro il 2050.
Si poteva fare di più? Una cosa è certa. C’è da agire, e subito.